Ħinduiżmu: Differenza bejn il-verżjonijiet

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"Mill-punto di vista tiegħi l-"Ħinduiżmu" mhux biss, kif sostnew xi studjużi, kostruzzjoni mill-orjentalisti punentin, li ppruvaw jagħtu isem lil-pluralità ta' fenomeni reliġjużi li jinstabu fl-erja ġeografika vasta tal-Asja t'Isfel. Il-Ħinduiżmu hu wkoll il-manifestazzjoni tal-awtorappreżentazzjoni mill-Ħinduwin u t-trasformazione moderna ta' elementi diġà preżenti fl-imgħoddi."
(Gavin Flood. L'induismo. Torino, Einaudi, 2006, pagg. 7-8)
 
== Origini, genesi e sviluppo storico dell'Induismo ==
=== La religione della [[Civiltà della valle dell'Indo]] ===
[[File:Shiva Pashupati.jpg|150px|right|thumb|Sigillo raffigurante la divinità della [[Civiltà della valle dell'Indo]] oggi da alcuni studiosi<ref>Cfr., tra questi, [[John Hubert Marshall]]. ''Mohenjo-Daro and the Indus Civilization''. Londra, Probsthain, 1931.</ref> identificato come proto-[[Paśupati]] (Signore degli animali), epiteto della successiva divinità induista di [[Śiva]]. Questo sigillo raffigura la divinità [[Paśupati]] in forma antropomorfica, con il pene eretto, forse in una postura "[[yoga|yogica]]" e il volto a tre facce munito di una acconciatura a forma di corna. Tale figura, posta su una pedana, è circondata da un bufalo, un rinoceronte, un elefante e una tigre, sotto la pedana sono poste due capre (o forse cervi).]]
[[File:CiviltàValleIndoMappa.png|150px|left|thumb|L'area della [[Civiltà della valle dell'Indo]]. Si ritiene che questa civiltà si sia sviluppata intorno al [[2500 a.C.]] tramontando intorno al [[1800 a.C.]] Molti studiosi ritengono che elementi della sua cultura religiosa siano poi riverberati nell'Induismo.]]
[[File:Statuette Mehrgarh.jpg|150px|left|thumb|Statuetta della Dea della [[Civiltà della valle dell'Indo]] rinvenuta a [[Mehrgarh]] (oggi in [[Pakistan]]) risalente al [[3000 a.C.]] e oggi conservata presso il [[Museo Guimet]] di [[Parigi]].]]
[[File:Mohenjodaro Sindh.jpeg|150px|right|thumb|Gli scavi archeologici a [[Mohenjo-daro]].]]
[[File:Indus seal impression.jpg|150px|right|thumb|Un esempio di cinque caratteri della presunta scrittura della [[Civiltà della valle dell'Indo]], scrittura ancora non decifrata, raccolti in un sigillo conservato presso il [[British Museum]] di [[Londra]].]]
La generalità degli studiosi considera il [[Vedismo]], la religione dei ''[[Veda]]'' praticata dagli [[indoari]], all'origine di quello che noi oggi indichiamo come "Induismo"<ref>{{q|Secondo la teoria fino a oggi diffusa più largamente, l'induismo è il risultato delle incursioni di gruppi noti come [[Arii]], giunti intorno al [[1500 a.C.]] nelle pianure settentrionali dell'India dall'Asia centrale, attraversando i passi montani dell'[[Afghanistan]]|[[Gavin Flood]]. ''Op. cit.'', pagg. 37-8.}}</ref>. Pur tuttavia, come segnala [[Alf Hiltebeitel]]<ref>Cfr. [[Alf Hiltebeitel]]. ''Hinduism'' in ''Encyclopedia of Religion'' vol. 6. NY, Macmillan, 2005 (1987), pagg. 3988 e segg.</ref>, vi sono buoni motivi per ritenere che le credenze religiose delle popolazioni della [[Valle dell'Indo]], siano elementi importanti per stabilire le radici dell'Induismo<ref>{{q|There are good reasons to suspect that a largely unknown quantity, the religion of the peoples of the Indus Valley, is an important source for determining the roots of Hinduism.|[[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.''}}</ref>.
 
Lo stesso [[Alf Hiltebeitel]] è consapevole, tuttavia, che conoscere tali credenze religiose è estremamente impegnativo e non può che essere di tipo congetturale essendo a noi del tutto sconosciuta la scrittura e quindi la lingua (per Hiltebeitel molto probabilmente di ceppo [[dravida|dravidico]]) di quella civiltà, documentata su numerosi sigilli di [[steatite]] rinvenuti nei siti archeologici<ref>{{q|The determination of the nature of Indus Valley religion and of its residual impact upon Hinduism are, however, most problematic. Although archaeological sites have yielded many suggestive material remains, the interpretation of such finds is conjectural and has been thwarted especially by the continued resistance of the Indus Valley script, found on numerous steatite seals, to convincing ecipherment. Until it is deciphered, little can be said with assurance. The content of the inscriptions may prove to be minimal, but if the language (most likely Dravidian) can be identified, much can be resolved|[[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.''}}</ref>.
 
La Civiltà della valle dell'Indo è una scoperta piuttosto recente, risale al 1921 quando [[Rai Bahadur Daya Ram Sahni]] e [[Rakhal Das Banerji]], su impulso di [[John Hubert Marshall]] dell'[[Archaeology Survey of India]], scoprirono le rovine di [[Harappā]] e [[Mohenjo-daro]]. Questa civiltà ha origine nel [[Neolitico]] ([[VIII millennio a.C.|7000 a.C.]]), sviluppandosi a partire dal [[XXXIV secolo a.C.|3300 a.C.]] - 2500 a.C. e tramontando definitivamente intorno al 1800-1500 a.C.<ref>Cfr., a titolo esemplificativo, [[Mortimer Wheeler]]. ''The Indus Civilization: The Cambridge History of India. Supplementary Volume''. Cambridge, Cambridge University Press, 1953.</ref> Fu una civiltà agricola e urbanizzata molto sviluppata con legami commerciali con la [[Mesopotamia]] che ci ha lasciato delle importanti vestigia e delle opere d'arte che conservano una scrittura ancora non decifrata.
 
Quale fu la cultura, la religione e soprattutto la lingua di questa civiltà? L'argomento è piuttosto controverso. La tesi ritenuta più probabile dagli studiosi, tra questi il finlandese [[Asko Parpola]]<ref>Cfr. [[Asko Parpola]] ''Deciphering the Indus Script''. Cambridge, Cambridge University Press, 1994.</ref>, è che la lingua di questa civiltà appartenga alla famiglia linguistica [[dravidica]] ovvero a quella costellazione di lingue oggi presenti nell'India meridionale come il [[Lingua tamil|tamil]], il [[telugu]], il [[Lingua malayalam|malayālam]] ma anche al Nord, nel [[Belucistan (regione geografica)|Belucistan]], con il [[Lingua brahui|brāhuī]]. Altri studiosi, come l'indiano di adozione statunitense [[Subhash Kak]]<ref>Cfr. [[Subhash Kak]]. "On the Decipherment of the Indus Script. A Preliminary of its Connections with Brahmi", in ''Indian Journal of History of Science''. 1987, XXII, 1, pagg. 51-62.</ref> la interpretano invece come una [[lingua indoeuropea]], quindi apparentata al [[sanscrito vedico]].
 
La questione "linguistica" è dirimente per stabilire la cultura, e quindi la cultura religiosa, di questa Civiltà, ovvero se essa rappresenta, o meno, un antico stanziamento indoeuropeo, ipotesi che, se confermata, farebbe cadere la teoria dell'invasione dell'India da parte degli [[indoari]] tra il 2000 e il 1500 a.C., teoria fino ad oggi considerata la più accreditata.
 
[[Thomas J. Hopkins]] e [[Alf Hiltebeitel]]<ref>[[Thomas J. Hopkins]] e [[Alf Hiltebeitel]]. ''Indus Valley Religion''. In ''Encyclopedia of Religion'' vol. 7. 2005 (1987) NY, Macmillan, pagg. 4468 e segg.</ref> ritengono, tuttavia, che la [[Religione della valle dell'Indo]] si incentrava sul culto di una divinità femminile, erede di una cultura religiosa rurale più ampia che arrivava all'[[Elam]] (oggi [[Iran]] sudoccidentale) e al [[Turkmenistan]] meridionale. Tale cultura religiosa si mantenne fino al periodo della urbanizzazione quando essa fu separata, finendo l'Elam sotto il controllo dei [[Sumeri]], il [[Turkmenistan]] conquistato dai nomadi delle steppe settentrionali, mentre gli insediamenti della Valle dell'Indo si espansero verso Oriente e il Meridione arrivando alla piana del [[Gange]], al [[Gujarat]] e all'altopiano del [[Altopiano del Deccan|Deccan]].
 
La presenza del culto della dea, che risale al VI secolo a.C., è particolarmente presente nell'area di [[Mehrgarh]], sito scoperto negli anni '70 del XX secolo, e che copre un periodo compreso tra il VI e il 2500 a.C. (inizio della urbanizzazione dell'area), ma è presente anche nei siti successivi ( [[Harappā]] e [[Mohenjo-daro]]) anche se con iconografie differenti. È stato, e viene ipotizzato che tale figura sia l'orgine del culto della Dea propria dell'Induismo successivo<ref>Cfr. [[Gavin Flood]] ''Op. cit.'' e [[Thomas J. Hopkins]] e [[Alf Hiltebeitel]] ''Op. cit.''.</ref> ma sono congetture non verificabili in quanto, peraltro, queste divinità femminili possono essere collegate a quelle sumere piuttosto che a quelle induiste<ref>Cfr. [[Gavin Flood]] ''Op. cit.'' .</ref>.
 
Della Civiltà della valle dell'Indo conserviamo anche dei sigilli, collegabili anche questi ai corrispettivi sumeri e soprattutto elamiti. Se le immagini di statuette prediligono rappresentare la divinità femminile in forma umana mentre quella maschile sotto forma animale (soprattutto [[Bos taurus|toro]], [[Bubalus bubalis|bufalo d'acqua]] e [[zebù]]), diverso è il caso dei sigilli. Di grandezza compresa tra l'1,9&nbsp;cm e i 3,2&nbsp;cm, tali sigilli presentano figure maschili e femminili dove l'elemento umano è mischiato a quello animale, in particolar modo con tori, bufali e tigri. Grande interesse ha destato il cosiddetto sigillo del "proto-[[Paśupati]]" (Signore degli animali) o "proto [[Śiva]]" indicato con questo nome in quanto identificato da alcuni studiosi<ref>Cfr., tra questi, [[John Hubert Marshall]]. ''Mohenjo-Daro and the Indus Civilization''. Londra, Probsthain, 1931.</ref> come l'antesignano dello [[Śiva]] induista. Questi sigilli rappresenterebbero il dio in forma antropomorfica, con il pene eretto, in una postura "[[yoga|yogica]]" e il volto bovino o a tre facce munito spesso di una acconciatura a forma di corna. In un sigillo tale figura, posta su una pedana, è circondata da un bufalo, un rinoceronte, un elefante e una tigre, sotto la pedana sono poste due capre (o forse cervi) e reca una scritta composta da sette segni indecifrati.
 
L'erudito [[Damodar Dharmananda Kosambi]] (1907-1966) ha tuttavia criticato questa lettura identificando in quelle di un bufalo le corna riportate nella acconciatura del proto-Paśupati. Se tale critica risultasse fondata verrebbe a cadere il collegamento tra il Paśupati pre-ario e Rudra/Śiva in quanto l'animale collegato a queste due ultime divinità è certamente il toro. Kosambi collega tuttavia ugualmente Paśupati con Śiva ma tramite il demonio bufalo [[Mahiṣāsura]] del quale tuttavia, fa notare [[David N. Lorenzen]]<ref>[[David N. Lorenzen]]. ''Śaivism'', in ''Encyclopedia of Religion'' vol. 12., NY, Macmillan, 2005, pag. 8039.</ref>, abbiamo contezza di una presenza successiva di millecinquecento anni.
 
Altri autori<ref>[[Thomas J. Hopkins]] e [[Alf Hiltebeitel]] ''Op. cit.''.</ref> ritengono di poter leggere questa figura come quella di un re maschio sottoposto al potere della Dea (presente in figura stilizzata nei sigilli accanto alla tigre, animale a lei collegato unitamente agli altri animali rappresentanti il mondo dell'agricoltura e delle lande selvagge fuori della civiltà) a cui deve l'autorità e al cui cospetto è responsabile.
 
Oltre queste statuette e questi sigilli, nell'area della Civiltà della valle dell'Indo sono stati rinvenuti numerosi ''[[Liṅgaṃ]]'' (simboli fallici, lett. "segno", "marchio") poi collegati sempre alla divinità dello [[Śiva]] induista<ref>{{q|As small stone phallic objects have been found at Indus Valley sites, this is probably an accurate description of a cult continued from pre-Vedic Indus Valley religion that prefigures the later veneration of the ''liṅga'' (phallus) in the worship of Śiva.|[[Thomas J. Hopkins]] e [[Alf Hiltebeitel]] ''Op. cit.'', pag. 3990}}.</ref>.
 
E comunque sia [[Asko Parpola]]<ref>[[Asko Parpola]]. ''Op. cit.''.</ref> ha documentato diversi elementi di eredità linguistica e iconografica tra la Civiltà della valle dell'Indo e la cultura dravidica dell'India meridionale<ref>{{q|Si è visto che l'induismo ha origini nelle antiche culture della civiltà della valle dell'Indo e degli Arii. Per quanto ancora si dibatta su questo tema, esistono prove consistenti a supporto della tesi che la lingua della civiltà della vallinda fosse dravidica, diversamente dalla lingua degli Arii vedici, che era indoeuropea.|[[Gavin Flood]], in ''Op. cit.'', pag. 12}}</ref>.
 
Le Civiltà della valle dell'Indo decadde improvvisamente intorno al XIX secolo a.C. a causa, sembrerebbe, di mutamenti climatici come le siccità o le inondazioni. Ciononostante a [[Mohenjo-daro]] sono stati rinvenuti scheletri di vittime di una morte violenta, caduti lì dove sono stati ritrovati, secondo [[Mortimer Wheeler]]<ref>{{q|In a lane in VS Area lay a group of six skeletons, including a child. In another lane in HR Area lay a single skeleton, though the circumstances of death and burial, if any, are obscure. In DK Area was found a group of nine skeletons, amongst them five children, "in strangely contorted attitudes and crowded together". They seem to have lain in a shallow pit, and with them were two elephant tusks. Their excavator suggested that they were "the remains of a family who tried to escape from the city with their belongings at the time of a raid but were stopped and slaughtered by the raiders. One or more of the family may have been ivory-workers, and only the tusks for which the raiders had no use were not taken as loot." 2 And yet again, in the same last phase, a public well-room in the DK Area was the scene of a tragedy which involved four deaths. The well was approached from the higher level of the adjacent "Low Lane" by a short flight of brick steps. "On the stairs were found the skeletons of two persons, evidently lying where they died in a vain endeavour with their last remaining strength to climb the stairs to the street." One of them was probably a woman. It appears that the "second victim fell over backwards just prior to death". Remains of a third and a fourth body were found close outside. " There seems no doubt that these four people were murdered. ...It can be regarded as almost certain that these skeletal remains date from the latter end of the occupation of Mohenjo-daro and are not later intrusions. The facts that some of the bones of one of these skeletons rested on the brick pavement of the well-room and that the skull of another lay on the floor of a (brick-lined) sediment-pit (adjoining the entrance) prove beyond doubt that both well-room and pit were in actual use when the tragedy took place." <br /> On circumstantial evidence such as this, considered in the light of the chronology as now inferred, Indra stands accused. Alternatively, if we reject the identification of the fortified citadels of the Harappans with those which he and his Vedic Aryan following destroyed, we have to assume that, in the short interval which can, at the most, have intervened between the end of the Indus civilization and the first Aryan invasions, an unidentified but formidable civilization arose in the same region and presented an extensive fortified front to the invaders. This second assumption is more difficult than the first; it seems better, as the evidence presents itself, to accept the identification and to suppose that the Harappans in their decadence, in the sixteenth or fifteenth century B.C., fell before the advancing Aryans in such fashion as the Vedic hymns proclaim: Aryans who nevertheless, like other rude conquerors of a later age, were not too proud to learn a little from the conquered. A provisional dating of 2500-1500 B.C. for the Indus civilization responds consistently to the current tests. |[[Mortimer Wheeler]]. ''The Indus Civilization: The Cambridge History of India. Supplementary Volume''. Cambridge, Cambridge University Press, 1953, pag. 92}}</ref> ciò testimonierebbe, comunque, l'invasione degli indoarii.
 
Nel 1500 a.C., l'arrivo dei conquistatori [[indoari]] nell'area oggi del [[Punjab (regione)|Punjab]], sempre per [[Thomas J. Hopkins]] e [[Alf Hiltebeitel]],<ref>[[Thomas J. Hopkins]] e [[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.''.</ref> fece sì che tale cultura religiosa venisse ereditata solo dalle culture [[dravida|dravidiche]] dell'India meridionale, sopravvivendo al Nord ma limitata a piccole comunità rurali e riemergendo nel periodo tardo e post [[vedismo|vedico]].
 
=== I ''[[Veda]]'', la [[Religione vedica]] e il [[Brāhmanesimo]] ===
 
Se le ipotesi di una eredità religiosa dei culti propri della Civiltà della valle dell'Indo nell'Induismo non possono che risultare delle congetture, l'origine vedica dello stesso non è messa in discussione da alcuno studioso.
 
La [[religione vedica]] corrisponde a quella raccolta di testi, il ''[[Veda]]'', tramandata oralmente per secoli da scuole brahmaniche (dette ''sākhā'') prima di essere messa per iscritto in epoca moderna<ref>[[Mircea Eliade]] in ''Storia delle credenze e delle idee religiose'' vol. 1, Milano, Rizzoli, 2006, pag. 211 nota come sia un tratto caratteristico della tradizione delle religioni indoeuropee quello di avvalersi della trasmissione orale e "al momento dell'incontro con le civiltà del Vicino Oriente, la proibizione di valersi della scrittura.".</ref><ref>[[Gianluca Magi]] in ''Hindūismo'', "Enciclopedia filosofica" vol. 6. Milano, Bompiani, 2006, pag. 5300 trattando della ''[[Śruti]]'' ricorda: {{q|la cosiddetta ''[[śruti]]'', la sapienza rivelata, "ascoltata" direttamente dall'Assoluto dai mistici veggenti (''[[ṛṣi]]''), intermediari umani che si sono limitati a riceverla e trasmetterla oralmente, poiché la trasmissione è considerata valida solo se è orale (mentre i testi scritti sono considerati testi morti che hanno perduto ogni potere magico).}}</ref><ref>{{q|I testi vedici furono composti e trasmessi oralmente da maestro a discepolo senza l'uso della scrittura, secondo una linea ininterrotta di trasmissione formalizzata. Ciò assicurò una trasmissione testuale impeccabile, superiore ai testi classici appartenenti ad altre culture; questo metodo può essere paragonabile ad una registrazione su nastro effettuata in epoche comprese tra il 1500 ed il 500 a.C. circa. E' stato così possibile preservare fino al presente non solo le parole ma anche l'accento tonale da lungo tempo perduto (come nel caso dell'antico greco o giapponese). Da una parte i Veda sono stati trascritti soltanto durante l'inizio del secondo millennio d.C., se alcune sezioni come una collezione delle Upaniṣad, furono forse trascritte soltanto nella metà del primo millennio, alcuni tentativi precedenti senza successo (vi erano in certe Smṛti delle regole che vietavano di trascrivere i Veda) furono fatti attorno alla fine del primo millennio a.C.
Comunque, quasi tutte le edizioni stampate si basano su manoscritti tardi, difficilmente più antichi di 500 anni, piuttosto che sulla superiore tradizione orale ancora esistente. La recitazione corretta di molti testi continua in alcune aree tradizionali come il Kerala, il Tamil-Nadu del sud, nella fascia costiera dell'Andhra, Orissa, Kathiawar, a Poona o a Benares. Nei pochi decenni passati vi è stato il tentativo da parte di studiosi locali e stranieri di conservare, o almeno di registrare, la tradizione orale. Ciononostante non esiste ancora, fino ad oggi, alcuna completa registrazione audio o video di tutte le recensioni vediche (śākhā) e alcuni testi sono andati perduti persino nel corso dei pochi decenni passati.(Traduzione dall'originale in lingua inglese).|[[Michael Witzel]] ''Vedas and Upaniṣads'' in ''The Blackwell Companion to Hinduism'' (a cura di [[Gavin Flood]]). Oxford, Blackwell Publishing, 2003}}</ref>. La datazione dei ''Veda'' è un argomento controverso e dibattuto, le edizioni 1998 e 2005 della ''Encyclopedia of Religion'', opera varata sul progetto dello storico delle religioni rumeno [[Mircea Eliade]] e che coinvolge centinaia di accademici di tutto il mondo, riporta, nella voce curata dallo studioso [[Ramchandra Narayan Dandekar]], un periodo compreso tra il [[2000 a.C.]] e il [[Anni 1100 a.C.|1100 a.C.]]<ref>Va tenuto presente che le datazioni anteriori al X secolo a.C. sono del tutto ipotetiche. Qui vengono proposte le ipotesi dello studioso [[Ramchandra Narayan Dandekar]] riportate nella ''Encyclopedia of Religion'' edita dalla MacMillan di New York nel 2005 (Vol. XIV, pag. 9550). Tale fonte, la ''Encyclopedia of Religion'', ha il pregio di essere uno strumento condiviso, curato e rivisto da numerosi studiosi di fama internazionale. Tuttavia altri autorevoli studiosi offrono datazioni più recenti. Così [[Saverio Sani]] (''Ṛgveda'', Venezia, Marsilio, 2000, pag. 19) data tra il XV e il V secolo a.C. la composizione del ''[[Ṛgveda]]''. [[Mario Piantelli]] (''Hinduismo'' a cura di [[Giovanni Filoramo]], Bari, Laterza, 2007, pag. 5) data la composizione dei Veda con l'arrivo degli indoari in India, datando questo arrivo nel XVI secolo a.C. D'altronde sempre Mario Piantelli in ''Le preghiere del mondo'', Torino, San Paolo, 1998, pag. 137) nota che «Le date generalmente reperibili nei manuali (dal 1300 al 700 a.C.) sono solo indicative e non hanno basi al di fuori delle congetture delle passate generazioni di indologi; è possibile che si debba tener conto d'uno scarto di mezzo millennio o più per le parti linguisticamente più antiche, anche alla luce del lessico, in cui compaiono piante e animali ancora non tipicamente indiani.». [[Michelguglielmo Torri]] (''Storia dell'India'' Bari, Laterza, 2000, pag. 32) entra nello specifico quando riportando la nuova tesi promossa dopo gli anni '80 sull'origine autoctona degli Arii, ricorda: «I due punti di forza di questa teoria fanno riferimento al fatto che, fermo restando l'indicazione del 1000 a.C. come data di completamento della composizione degli inni raccolti nel ''Rig Veda'', non è affatto certa quale sia la data d'inizio. Questa potrebbe essere assai più antica del 1500 a.C. e risalire al 3000, al 4000 o addirittura al 7500 a.C. Il primo elemento a supporto di questa è tratto dall'astroarcheologia, cioè dal fatto che all'interno dei ''Veda'' vi sia una serie di riferimenti astronomici che, una volta decodificati, fanno pensare che i compositori degli inni vedici abbiano vissuto sotto un cielo caratterizzato da configurazioni stellari e da parabole solari caratteristiche di periodi ben più antichi del 1500 a.C.». Tra gli indologi che spostano ben oltre la data del 1500 a.C. Torri cita: [[David Frawley]], [[K.D. Sethna]] e [[Shrikant Talageri]]. Mentre [[Stephanie W. Jamison]] e [[Michael Witzel]] (''Vedic Hinduism'', pag. 5) se da una parte limitano il periodo vedico al 1500-500 a.C. dall'altra notano che: « The RigVeda, which no longer knows of the Indus cities but only mentions ruins (armaka, [mahå]vailasthåna), thus could have been composed during the long period between 1990 and 1100 BCE.». Per [[J. L. Brockington]] (in ''Concise encyclopedia of language and religion'' Oxford, Elsevier, 2001, pag. 126) invece i più antichi inni dei Veda, appartenenti al Rig Veda, vanno fatti risalire al 1200 a.C.</ref>.
[[File:Rigveda MS2097.jpg|thumb|250px| ''[[Ṛgveda]]''. Manoscritto in [[devanāgarī]], XIX secolo. Dopo una benedizione (''"śrīgaṇéśāyanamaḥ ;; Aum(3) ;;"''), la prima riga apre con il primo verso del primo inno del ''Ṛgveda'' (1.1.1): ''Agniṃ ; iḷe ; puraḥ-hitaṃ ; yajñasya ; devaṃ ; ṛtvijaṃ'' («Ad Agni rivolgo la mia preghiera, al sacerdote domestico, al divino officiante del sacrificio»). L'accento vedico è segnalato da sottolineature in inchiostro rosso.]]
 
Il ''Veda'' più antico è senza dubbio il ''[[Ṛgveda]]'', cui seguono gli altri tre: ''[[Sāmaveda]]'', ''[[Yajurveda]]'', e ''[[Atharvaveda]]''. Nel complesso questa letteratura religiosa descrive gli indoari come [[nomadi]] guerrieri in conflitto con le popolazioni locali, eredi della [[Civiltà della valle dell'Indo]]. I testi [[Veda|vedici]] descrivono le popolazioni autoctone come di pelle scura oggi identificate come [[Dràvida|dravidiche]]. Gli [[indoari]] indicavano sé stessi come ''ārya'' (nobili) riservando il termine ''dāsa'' (anche ''dasyu'', successivamente col significato di "schiavo") alle popolazioni autoctone con cui erano venuti a contatto. Secondo gli [[indoari]], questi ''dāsa'' non veneravano [[divinità]] né possedevano riti religiosi quanto piuttosto veneravano un "fallo" ([[pene]] eretto, [[sanscrito]] ''[[liṅgaṃ]]'', denominato dio-pene o dio-coda ''Siśnadeva''). Secondo [[Alf Hiltebeitel]]<ref>[[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.'', pag. 3990.</ref> la scoperta di oggetti di forma fallica nella [[Valle dell'Indo]] fa supporre come corretta la descrizione vedica di questi culti, peraltro anticipatori del culto del ''[[Liṅgaṃ]]'' nello [[Śivaismo]]<ref>Cfr. [[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.'' e [[Mario Piantelli]] ''Op. cit.''</ref>.
 
Successivamente gli [[indoari]] si spostarono verso Sud e verso Est in un processo di conquista che non fu mai terminato essendoci tutt'oggi vasti territori dell'India meridionale ed orientale dove ancora si parlano dialetti [[Lingue dravidiche|dravidici]] e [[Lingue munda|munda]]<ref>Cfr. [[Francisco Villar]]. ''Gli Indoeuropei''. Bologna, il Mulino, 1997, pag. 558.</ref>.
 
Gli [[indoari]] erano suddivisi in ''jāna'' ([[sanscrito]], corrispettivo del [[Lingua latina|latino]] ''gentes'') a loro volta suddivisi in "clan" (''viś'') guidati da un capoclan (''viśpáti''). Erano allevatori nomadi che progressivamente si stanziarono in cittadelle fortificate con mura di terra battuta ([[sanscrito vedico]] ''púr'' पुर, corrispondente al [[Lingua greca antica|greco antico]] πόλις ''[[polis]]'') come già prima di loro i nemici ''Dāsa''. Dalle scritture vediche questi ''Ārya'' appaiono ricchi, dediti a feste cerimoniali a base di carne e di ''madhu'' (liquore a base di [[miele]] come l'[[idromele]])<ref>[[Mario Piantelli]]. ''Op. cit.''.</ref>. I villaggi degli [[indoari]] venivano eretti dopo un cerimoniale di [[consacrazione]] complesso che prevedeva l'aratura del luogo e la messa in posa di nove colonne (''sthūṇā'') destinate a sostenere gli edifici. Al centro del villaggio era posta la colonna più importante (''skambha'') posto come albero primordiale che sostiene il Cielo (''Div'' o ''Dyú'').
 
[[Anne-Marie Esnoul]]<ref>[[Anne-Marie Esnoul]]. ''Enciclopedia delle Religioni'' vol. 9. Milano, Jaca Book, 2004, pag. 250.</ref> evidenzia come nella civiltà e nella letteratura religiosa vedica (comprensiva in questo caso dei ''[[Veda]]'' e dei loro commentari ''[[Brāhmaṇa]]'') non si riscontra alcuna riflessione sulla 'sofferenza' nel mondo, sul ciclo delle rinascite (''[[saṃsāra]]'') e, di conseguenza sui percorsi di [[bodhi|liberazione]] da esso, quanto piuttosto il godimento (''bhukti'') della vita terrena. È quindi solo con le prime ''[[Upaniṣad]]'' (IX secolo a.C.) che si avvia la riflessione [[Teologia|teologica]] indiana sulla sofferenza nel mondo e sulla necessità di un percorso di liberazione da essa. E questo corrisponderebbe all'avvio del [[periodo assiale]] individuato da [[Karl Jaspers]]<ref>Cfr. [[Karl Jaspers]]. ''Vom Ursprung und Ziel des Geschichte''. Artemis, Zurigo, 1949; Piper, München, 1949 (1983); trad. it., ''Origine e senso della storia'', a cura di A. Guadagnin, Comunità, Milano, 1965, pag. 20.</ref> che si riscontrerà nel successivo pensiero ''upaniṣadico'' e quindi nell'Induismo.
 
==== I ''[[deva]]'' e il [[yajna|sacrificio vedico]] ====
La [[Religione vedica]] è decisamente [[politeismo|politeistica]] e nei ''Veda'' vengono citati numerosi dèi (''deva''), certamente in numero maggiore dei trentatré (''trayastrimsas'') a cui la tradizione fa riferimento<ref>Cfr. [[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.'' ma anche [[Jean Varenne]]. ''La religione vedica'', in ''Storia delle religioni'', vol. 13 (a cura di [[Henri-Charles Puech]]). Bari, Laterza, 1978, pagg. 14-5.</ref>. Gli dèi vedici sono per lo più [[indoeuropei]]<ref>Lo stesso termine in [[sanscrito vedico]] ''devá'', dal sostantivo maschile sanscrito ''dív'' (nominativo ''deiaus''; "brillare", "emettere luce", "splendore", "giorno", "cielo") corrisponde, ad esempio, al latino ''deus'', all'[[Lingua avestica|avestico]] ''daēvō'', al [[Lingua venetica|venetico]] ''deivas'', all'[[antico prussiano]] ''deiwas''.</ref> e alcuni di questi corrispondono, ad esempio, agli dèi presenti nei culti [[iranici]] e citati nell'<nowiki></nowiki>''[[Avestā]]''<ref>Cfr., tra i numerosi altri, [[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.'' ma anche [[Jean Varenne]]. ''La religione vedica'' in ''Storia delle religioni'' vol. 13 (a cura di [[Henri-Charles Puech]]). Bari, Laterza, 1978, pagg. 14-5 e [[Mario Piantelli]] ''Op. cit.''.</ref>.
 
Gli antichi inni del ''Ṛgveda'' non prestano particolare attenzione al [[rito]] religioso quanto piuttosto esaltano le gesta degli dèi, ma quando essi invitano, per mezzo del [[yajna|sacrificio]], gli dèi a partecipare ai banchetti sacrificali due sono le divinità sempre convocate: [[Agni]] e [[Soma (Vedismo)|Soma]]. Il primo è il dio del fuoco, colui che consumando le offerte ha il compito di portarle alle altre divinità<ref>Uno degli epiteti di [[Agni]] è ''Vahni'' "colui che veicola", "che conduce" le offerte; cfr. al riguardo [[Jean Varenne]]. ''L'India e il sacro. Una antropologia''. In ''L'uomo indoeuropeo e il sacro''. Milano, Jaca Book, 1991, pag. 36.</ref>, il secondo, Soma, corrisponde anche alla pianta, e al succo che per mezzo del rito sacrificale se ne estrae, dell'immortalità (''amŗta'').
 
Gli dèi vedici hanno raggiunto l'immortalità, non dormono, non muovono le palpebre degli occhi, non possiedono un'ombra, hanno corpi fisici sottili (''tanū'') con cui si cibano e si accoppiano, e questi corpi sono molteplici, polimorfi e possono apparire sotto forme umane o animali<ref>[[Mario Piantelli]]. ''Op. cit.'', pag. 43</ref>. [[Mario Piantelli]] nota:
[[File:ശ്യേന-ചിതി‌-നിർമ്മാണം.jpg|450px|right|thumb|L'antico [[yajna|rito sacrificale]] [[vedismo|vedico]] dell'<nowiki></nowiki>''[[agnicayana]]'' (lett. "accumulo di [[Agni]]") ancora praticato dai [[brahmano|brahmani]] ultraortodossi, detti ''[[Nambūṭiri]]'', del [[Kerala]]. Questo rito richiede la costruzione di un altare del fuoco (''[[vedi]]'') a forma di uccello composto da più di duemila mattoni (''iṣṭaka''). Il rito ha la durata di dodici giorni, e durante la costruzione occorre, tra l'altro, la recitazione di specifici ''[[mantra]]'' estratti dal ''[[Veda]]''.]]
{{q|Gli è che, a differenza di quanto avviene per i membri di altri ''pantheon'' indoeuropei, le figure divine del mondo vedico presentano sovente una certa imprecisione di contorni e sono facilmente soggette ad essere identificate le une con le altre. Ciò è sottolineato dal fatto che, nella prospettiva vedica, nominare un essere divino, individuandone la sfera di attività equivale a crearlo/manifestarlo: il [[Brahman]], potenza di accrescimento inerente all'invocazione, non soltanto incita gli dèi, ma li genera e li mette in moto|[[Mario Piantelli]]. ''Op. cit.'', pag. 43}}
 
Nei testi più antichi, come il ''[[Ṛgveda]]'', i termini con cui vengono indicate le divinità sono ''[[deva]]'' e ''[[asura]]''<ref>''Ahura'' in [[Lingua avestica|avestico]] da qui [[Ahura Mazdā]]. [[Jean Varenne]], in ''op. cit.'', 1978, pag. 16, evidenzia come la radice del termine ''asura'', ''asu'' richiami la "forza vitale, il soffio della vita".</ref> e questi termini sono spesso intercambiabili<ref>Con il termine ''Asura'' vengono indicati nel ''[[Ṛgveda]]'' varie divinità tra cui: [[Savitṛ]] (I, 35, 10), [[Varuṇa]] (I, 24, 14), [[Rudra]] (II, 1, 6), [[Indra]] (I, 174,1), [[Agni]] (V, 12, 1) e [[Soma (Vedismo)|Soma]] (IX, 72,1).</ref>.
 
Oltre ai già menzionati [[Agni]] e Soma, particolare attenzione prestano i ''Veda'' al gruppo dei sei ''[[Āditya]]'':
*[[Varuṇa]], è sicuramente il più importante Āditya e tra le divinità fondamentali degli inni vedici; è strettamente collegato con la nozione di ''[[Ṛta]]'';
*[[Mitra (divinità)|Mitra]], è un dio minore negli inni vedici e si invoca per sigillare alleanze o contratti;
*[[Aryaman]], è il ''deva'' legato al matrimonio e all'ospitalità;
*[[Bhaga]], è il dio legato alla funzione del sovrano quando distribuisce la preda di guerra o i prodotti collettivi tra i membri adulti delle tribu [[Arii|arie]], è legato alla eredità dei beni;
*[[Dakṣa]], negli inni vedici è il garante dell'efficacia e del successo del sacrificio;
*[[Aṃśa]], è collegato e invocato per l'acquisizione dei beni mediante la buona sorte.
 
{{Testi sacri Induismo}}
Altre divinità vediche sono [[Rudra]], l'antesignano dello [[Śiva]] induistico<ref>{{q|L'antico nome di Śiva è Rudra, il dio selvaggio|[[Stella Kramrish]]. ''Enciclopedia delle Religioni'', vol. 9, Milano, Jaca Book, 2004, pag. 346}} {{q|Rudra è un dio vedico, precursore della grande divinità induista Śiva|[[Sukumari Bhattacharji]]. ''Enciclopedia delle Religioni'', vol. 9. Milano, Jaca Book, 2004, pag. 318}}</ref> e [[Viṣṇu]] che invece successivamente ingloberà la divinità eroica e post vedica [[Kṛṣṇa]]<ref>{{q|Many scholars feel that Kṛṣṇa and Viṣṇu were originally two independent deities.|[[John Stratton Hawley]]. ''Kṛṣṇa'', in ''Encyclopedia of Religion'', vol. 8. NY, Macmillan, 2005, pag. 5248}}</ref>. Il ''deva'' più menzionato dal ''Veda'' è [[Indra]], colui che uccide con il ''[[vajra]]'' (la folgore) il serpente cosmico [[Vṛtra]] dando inizio alla creazione, il dio guerriero per eccellenza che sconfigge i malvagi ''dāsa''.
 
Come evidenzia [[Saverio Sani]]<ref>[[Saverio Sani]]. ''Ṛgveda''. Venezia, Marsilio, 2000, pagg. 25 e segg.</ref> il rituale del sacrificio vedico (''[[yajña]]'') è il mezzo con cui gli uomini scambiavano doni con gli dèi. [[Saverio Sani]] nota anche come nella cultura sacrificale vedica siano del tutto assenti templi o costruzioni stabili dedicate ai sacrifici, non abbiamo inoltre elementi che possano far ritenere l'esistenza di statue o immagini delle divinità vediche. Il luogo del "sacrificio vedico" era tuttavia delimitato e preparato con grande cura e precisione, con specifiche aree deputate a riti particolari. Il sacrificio vedico poteva essere tuttavia celebrato in qualsiasi luogo scelto, il che si adattava alla vita seminomade degli antichi [[indoari]]. Gli attrezzi adibiti al sacrificio (vasi, coppe, mestoli,'' etc.'' collettivamente indicati con il sostantivo maschile ''sambhārá'') provenivano da quelli utilizzati durante la vita quotidiana e resi [[sacro|sacri]] solo sul momento. Elemento fondamentale del "sacrificio vedico" era il [[fuoco]] e asse centrale del suo rito era l'offerta al fuoco di alimenti o bevande. L'atto di offerta al fuoco era denominato ''agnihotra'' (offerta al fuoco), qualsivoglia cerimonia vedica comprendeva l' ''agnihotra''.
 
Secondo [[Jan C. Heesterman]]<ref>Cfr. [[Jan C. Heesterman]]. ''Il mondo spezzato del sacrificio. Studio sul rituale nell'India antica''. Milano, Adelphi, 2007</ref> il sacrificio vedico era di tipo agonistico. Il ruolo centrale in questo caso era affidato al ''[[deva]]'' [[Indra]] e il procedimento sacrificale prevedeva gare tra carri e competizioni verbali (''brahmdoya'') tra gli officianti dove «è in ballo la spartizione della vita e della morte fra i partecipanti»<ref>[[Jan C. Heesterman]]. ''Op. cit.'' pag. 15</ref>.
 
Sempre secondo Jean C. Heesterman<ref>Op. cit.</ref> anche la nozione del ''[[Brahman]]'' è collegato, nelle quattro raccolte degli inni dei ''[[Veda]]'', alla contesa verbale, ovvero al rito del ''[[Brahmdoya]]'' propria della [[Vedismo|cultura vedica]] con particolare riferimento al sacrificio del cavallo (''aśvameda''). In questo contesto, prima del sacrificio i due officianti si sfidavano con domande enigmatiche, colui che riusciva a risolverle affermava di sé stesso:
{{quote|questo ''brahman'' è il cielo più alto della parola||brahmayāṃ vācaḥ paramaṃ vyoma |lingua=sa}}
 
Jan C. Heesterman ricorda come queste contese non erano affatto pacifiche, il concorrente che insisteva a sfidare il vincitore con ulteriori enigmi avrebbe pagato con la sua testa i suoi affronti.
 
==== La "riforma" rituale dei ''[[Brāhmaṇa]]'' ====
Tra l'XI e il IX secolo a.C. vengono a formarsi dei testi, composti sempre in [[sanscrito vedico]], indicati con il nome di ''[[Brāhmaṇa]]''. Lo scopo religioso di questi testi è quello di regolare i rapporti tra formule sacrificali (''[[mantra]]'') e le azioni (''[[karman]]'') eseguite nel corso dello stesso sacrificio vedico.
 
Tale regolazione acquisisce chiaramente un ruolo di riforma così [[Jan C. Heesterman]]:
{{q|Il pensiero ritualistico dei ''Brāhmaṇa'' deve le sue origini a un cambiamento fondamentale della visione del mondo, che fece nascere una nuova concezione del sacrificio. ... In effetti, gli autori dei ''Brāhmaṇa'' sembrano coscienti di stare restaurando il sacrificio all'interno di un sistema rituale nuovo e razionalizzato|[[Jan C. Heesterman]]. ''Enciclopedia delle Religioni'' vol. 9. Milano, Jaca Book, 2006, pagg. 58 e segg.}}
 
Il ruolo del [[sacrificio vedico]], che da ora è proprio del sacerdote indicato come [[brahmano]], diviene, se correttamente eseguito, un procedimento automatico per ottenere dei risultati o spiegare gli eventi che precedentemente erano attribuiti all'intervento degli dèi<ref>[[Jan Gonda]]. ''Veda e antico induismo''. Milano, Jaca Book, 1981, pag. 53.</ref>:
{{q|Nei ''Brāhmaṇa'' il sacrificio assume un'importanza talmente centrale da sopraffare alla fine la stessa potenza degli dèi che furono ridotti ad elementi catalizzatori che giustificavano una serie di operazioni [[sacro|sacre]] in grado di sprigionare una forza incommensurabile, origine e sostegno dell'universo|[[Gianluca Magi]]. ''Enciclopedia filosofica'' vol. 2. Milano, Bompiani, 2006, pagg. 1446 e segg.}}
 
I [[brahmano|brahmani]] finirono per porre sotto il loro controllo tutto ciò che era di pertinenza religiosa:
{{q|I brahmani inclinarono in linea generale a conglobare nel loro 'sistema' tutto ciò che aveva in qualche modo un significato religioso - o più esattamente filosofico -: educazione, ordinamento della società, culto, interpretazione del decorso del mondo.|[[Jan Gonda]]. ''Veda e antico induismo''. Milano, Jaca Book, 1981, pag. 53}}
 
Così nei ''[[Brāhmaṇa]]'' acquisiscono un ruolo superiore quelle divinità e quelle pratiche proprie o collegate alla casta sacerdotale: se nel ''[[Ṛgveda]]'' (I,110,93) fu [[Savitar]] a consegnare l'immortalità agli [[Rbhu]], nell'<nowiki></nowiki>''[[Aitareya Brāhmaṇa]]'' questo risultato viene raggiunto con il ''[[tapas]]'' (l'ardore ascetico); se nel ''[[Ṛgveda]]'' è [[Indra]] il re degli dèi e la sua potenza e stata a lui da loro conferita (VI, 20,2), nel ''[[Jaiminīya Brāhmaṇa]]'' (II,141) è invece [[Prajāpati]] ad averlo creato e solo dopo, proprio per mezzo di un rito sacrificale, gli ha consegnato la supremazia sulle altre divinità<ref>[[Jan Gonda]]. ''Op. cit.''</ref>; se nella lotta che emerge nella precedente letteratura religiosa tra ''[[deva]]'' e ''[[asura]]'' (termini che negli inni più antichi del ''[[Ṛgveda]]'' sono ancora intercambiabili, mentre in un inno tardo, il X,157,4, essi rappresentano due entità distinte in lotta fra loro e dove i ''deva'' finiscono per avere la supremazia sugli ''asura''), nel ''[[Jaiminīya Brāhmaṇa]]'' (I,123) questa vittoria fu dovuta al fatto che i ''deva'', a differenza degli ''asura'', conoscono i dettagli rituali; infine nel ''[[Śatapatha Brāhmaṇa]]'' (V,2,3,7) [[Indra]] uccide il serpente cosmico [[Vṛtra]] non più con il ''vajra'' (''[[Ṛgveda]]'', I,32,2-4) ma per mezzo dell'efficacia di un rito.
 
Allo stesso modo se il termine/nozione di ''[[brahman]]'' originerebbe da una figura dell'[[India]] [[Vedismo|vedica]] vincitrice nelle gare sacrificali poetico-enigmatiche, con l'ingresso della letteratura in [[prosa]] dei ''[[Brāhmaṇa]]'' si osserva, a partire dal X secolo a.C., un radicale cambiamento: al rituale agonistico si sostituisce il rituale rigidamente codificato e pacifico.
{{q|Questo cambiamento fondamentale è espresso in modo interessante in un mito ritualistico che narra della competizione sacrificale decisiva tra [[Prajāpati]] e [[Mṛtyu]], o morte (''Jaiminīya Brāhmaṇa'', 2,69-2,70). Prajāpati conquista la vittoria finale perché riesce a "vedere" l'analogia, che gli consente di assimilare la [[panoplia]] sacrificale dell'avversario e di eliminarlo quindi in maniera definitiva. Conclude il testo: "da allora non vi furono più contese sacrificali|Jean C. Heesterman. ''Op. cit.'', pag. 57 }}
 
Nel contesto dei ''[[Brāhmaṇa]]'' il ''brahman'' da espressione dell' "enigma cosmico" oggetto di competizione sacerdotale diviene la stessa formula sacrificale oggettiva e trascendente che si concretizza nel rituale gestito da una casta sacerdotale.
 
Il saggista ed erudito [[Roberto Calasso]] indagando i motivi per i quali, a differenza di altre civiltà, di quella vedica e di quella antico brahmanica non rimane praticamente nulla se non dei testi religiosi che si occupano esclusivamente della conoscenza dei rituali e delle divinità ad essi collegati, conclude che i loro rappresentanti erano primariamente interessati a tutto ciò che ineriva alla presenza mentale e ai relativi stati di coscienza:
{{q|Perché gli uomini vedici era così ossessionati dal rituale? Perché tutti i loro testi, direttamente o indirettamente, parlano di liturgia? Volevano pensare, volevano vivere in certi stati della coscienza. Scartato ogni altro, questo rimane l'unico motivo plausibile. Volevano pensare e soprattutto essere coscienti di pensare. Questo avviene esemplarmente nel compiere un gesto. C'è il gesto - e c'è l'attenzione che si concentra sul gesto. L'attenzione trasmette al gesto il suo significato| [[Roberto Calasso]]. ''L'ardore''. Milano, Adelphi, 2010, pag. 31}}
 
==== L'interiorizzazione del sacrificio negli ''[[Āraṇyaka]]'' e le riflessioni 'teologiche' delle ''[[Upaniṣad]]'' ====
[[File:Map of Vedic India.png|400px|thumb|L'India [[Vedismo|vedica]] al tempo della formazione delle prime ''[[Upaniṣad]]'' (IX secolo a.C.). Corrisponde al territorio abitato dagli ''Ārya'' ([[indoari]], abitanti l'<nowiki></nowiki>''Āryavārta''), la Terra di mezzo (''Madhyadeśa'') dove vive l'[[Antilope cervicapra|antilope nera]] (''kṛṣṇasāra mṛga''). {{q|La regione compresa tra l'[[Himālaya]] [a nord] e la catena dei [[Vindhya]] [a sud], a est del [[Vinaśana]] e a ovest di [[Prayāga]] è chiamata Madhyadeśa [ossia la terra di mezzo]. I savi chiamano Āryavārta la regione compresa tra queste due catene montuose che si estende dal mare orientale al mare occidentale. La dove l'[[Antilope cervicapra|antilope nera]] è nativa e si aggira, quella è conosciuta come la terra atta al sacrificio: al di là di quella vi è la terra degli strenieri (''mleccha''). I nati due volte devono cercare di stabilirsi in queste regioni, ma uno '' śūdra'' che abbia difficoltà a guadagnarsi da vivere può risiedere in qualunque luogo| ''Manusmṛti'' II, 21-4. Traduzione di [[Federico Squarcini]] e [[Daniele Cuneo]] in ''Il trattato di Manu sulla norma''. Torino, Einuadi, 2010, pagg. 18-9|himavadvindhyayor madhyaṃ yat prāg vinaśanād api pratyag eva prayāgāc ca madhyadeśaḥ prakīrtitaḥ ā samudrāt tu vai pūrvād ā samudrāc ca paścimāt tayor evāntaraṃ giryor āryāvartaṃ vidur budhāḥ kṛṣṇasāras tu carati mṛgo yatra svabhāvataḥ sa jñeyo yajñiyo deśo mlecchadeśas tv ataḥ paraḥ etāṇ dvijātayo deśān saṃśrayeran prayatnataḥ śūdras tu yasmin kasmin vā nivased vṛttikarśitaḥ|lingua=sa}}]]
Accanto, ma comunque successivi ai ''[[Brāhmaṇa]]'' e sempre intorno all'anno 1000 a.C., compaiono gli ''[[Āraṇyaka]]'', testi che, secondo [[Jan C. Heesterman]]<ref>''Enciclopedia delle Religioni'' vol. 9 Milano, Jaca Book, 2004, pag. 459.</ref>, rappresenterebbero la reazione di alcuni ''[[kṣatrya]]'' alla loro esclusione dai rituali vedici indicati nei ''[[Brāhmaṇa]]'' e, conseguentemente, il loro tentativo di acquisire uno ''status'' religioso segreto. Negli ''Āraṇyaka'' emerge dunque uno spostamento del rito sacrificale dal villaggio ai luoghi selvaggi e una minore attenzione alla descrizione del rito con la valorizzazione della sua interiorizzazione dove, ad esempio, esso viene equiparato all'alternarsi tra respiro e parola, giungendo così a creare delle corrispondenze tra il rito sacrificale e la vita di colui che vi medita<ref name=autogenerato5>[[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.''</ref>.
 
A partire dal IX secolo a.C. vengono ad essere dei testi che risulteranno fondamentali per il successivo Induismo: le ''[[Upaniṣad]]''.
 
Questi testi non presentano un pensiero filosofico religioso organizzato quanto piuttosto consistono in un approfondimento delle credenze e delle pratiche religiose presenti nei ''[[Veda]]'' e nei ''[[Brāhmaṇa]]'', e, secondo [[Karl Jaspers]], rappresentano in India il suo avvio nel [[periodo assiale]]<ref>{{quote|In questo periodo si concentrano i fatti più straordinari. In Cina vissero [[Confucio]] e [[Lǎozǐ]], sorsero tutte le tendenze della filosofia cinese, meditarono [[Mòzǐ]], [[Zhuāng Zǐ]], [[Lìe Yǔkòu]] e innumerevoli altri. In India apparvero le ''[[Upaniṣad]]'', visse Buddha e, come in Cina, si esplorarono tutte le possibiltà filosofiche fino allo [[scetticismo filosofico|scetticismo]] e al [[materialismo]], alla [[sofistica]] e al [[nihilismo]]. In Iran [[Zarathustra]] propagò l'eccitante visione del mondo come lotta fra bene e male. In Palestina fecero la loro apparizione i profeti, da [[Elia]] a [[Isaia]] e [[Geremia]], fino a [[Deutero-Isaia]]. La Grecia vide [[Omero]], i filosofi [[Parmenide]], [[Eraclito]] e [[Platone]], i poeti [[Tragedia|tragici]], [[Tucidide]] e [[Archimede]]. Tutto ciò che tali nomi implicano prese forma in pochi secoli quasi contemporaneamente in Cina, in India e nell'Occidente, senza che alcuna di queste regioni sapesse delle altre. La novità di quest'epoca è che in tutti e tre i mondi l'uomo prende coscienza dell' "[[Essere]]" nella sua interezza (''umgreifende'': ulteriorità onnicomprensiva), di se stesso e dei suoi limiti. Viene a conoscere la terribilità del mondo e la propria impotenza. Pone domande radicali. Di fronte all'abisso anela alla liberazione e alla redenzione. Comprendendo coscientemente i suoi limiti si propone gli obiettivi più alti. Incontra l'assolutezza nella profondità dell'essere-se-stesso e nella chiarezza della trascendenza,. Ciò si svolse nella riflessione. La coscienza divenne ancora una volta consapevole di se stessa, il pensiero prese il pensiero ad oggetto.|[[Karl Jaspers]], in ''Vom Ursprung und Ziel des Geschichte''. Artemis, Zurigo 1949; Piper, München 1949 (1983); trad. it., ''Origine e senso della storia'', a cura di A. Guadagnin, Comunità, Milano, 1965, pag. 20. }}</ref>.
 
All'interno di questo contesto se nei ''[[Veda]]'' già compare l'intuizione di una unità sottostante a tutte le divinità<ref>{{quote|Indra, Mitra, Varuṇa, Agni lo hanno chiamato e anche divino Garútman dalle meravigliose ali,
una unica Realtà i saggi in modo molteplice invocano, Agni, Yama, Mātariśvān lo hanno chiamato|''[[Ṛgveda]]'', I, 164,46|indraṃ mitraṃ varuṇamaghnimāhuratho divyaḥ sa suparṇo gharutmān ekaṃ sad viprā bahudhā vadantyaghniṃ yamaṃ mātariśvānamāhuḥ|lingua=sa}}</ref> e nel ''[[Samāvidhāna Brāhmaṇa]]'' (I,1,3) tale unità è indicata nel ''[[Brahman]]''<ref>{{q|In origine vi era il Brahman soltanto; poiché il succo della sua forza si espandeva, divenne Brahmā. Brahmā meditò in silenzio con la mente e la sua mente divenne Prajāpati|''[[Samāvidhāna Brāhmaṇa]]'' (I,1,3)|brahma ha vā idam agra āsīt tasya tejoraso 'tyaricyata sa brahmā samabhavat sa tūṣṇīṃ manasādhyāyat tasya yan mana āsīt sa Prajāpatir abhavat|lingua=sa}}</ref>, per la ''[[Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad]]'' occorre comprendere che non vi è differenza non solo tra gli Dei ma anche tra gli Dei, gli uomini e il Tutto e questo Tutto origina ed è il ''Brahman''<ref>{{q|In verità all'inizio questo universo era unicamente Brahman, questi conobbe sé stesso "Io sono Brahman" ed esso era Tutto. Così gli Dei (''deva'') che si svegliavano a tale pensiero (''pratyabudhyata'') diventarono anche loro ''Brahman'' così per i ''[[ṛṣi]]'' e per gli uomini (''manuṣyā''). Comprendendo ciò il ''[[ṛṣi]]'' [[Vāmadeva]] affermò: "Io fui Manu io fui il Sole (''Sūrya'')". E colui che ancora oggi comprende: "Io sono il ''Brahman''" costui è il Tutto e neppure gli Dei possono impedirglielo, in quanto diventa il Sè (''atman'') di loro stessi. Quello che venera una divinità ritenendo che essa sia altra da sé "Altri è Dio, altri sono io" quello non sa. Per gli Dei è come una bestia. Così come le bestie nutrono gli uomini, gli uomini nutrono [attraverso i sacrifici] gli Dei. Come perdere un animale è cosa sgradevole, più grave è perderne molti. Per questa ragione non piace agli Dei che gli uomini conoscano questo|''[[Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad]]'' I, 4, 10|brahma vā idam agra āsīt tad ātmānam evāvet ahaṃ brahmāsmīti tasmāt tat sarvam abhavat tad yo yo devānāṃ pratyabudhyata sa eva tad abhavat tatharṣīnām tathā manuṣyāṇām tad dhaitat paśyann ṛṣir vāmadevaḥ pratipede 'haṃ manur abhavaṃ sūryaś ceti tad idam apy etarhi ya evaṃ vedāhaṃ brahmāsmīti sa idaṃ sarvaṃ bhavati tasya ha na devāś canābhūtyā īśate ātmā hy eṣāṃ sa bhavati atha yo 'nyāṃ devatām upāste 'nyo 'sāv anyo 'ham asmīti na sa veda yathā paśur evaṃ sa devānām yathā ha vai bahavaḥ paśavo manuṣyaṃ bhuñjyur evam ekaikaḥ puruṣo devān bhunakti ekasminn eva paśāv ādīyamāne 'priyaṃ bhavati kim u bahuṣu tasmād eṣāṃ tan na yaṃ yad etan manuṣyā vidyuḥ|lingua=sa}}</ref>.
 
Da ciò si evidenzia, secondo [[Gianluca Magi]],<ref>''Op. cit.'', pag. 11934</ref> che:
{{q|Il problema filosofico fondamentale delle ''Upaniṣad'', al quale tutti gli altri possono essere considerati subordinati, è quello della vera natura di ciò che esiste. I pensatori delle ''Upaniṣad'' considerano che dietro ogni manifestazione, di qualunque natura essa sia, si debba trovare un fondamento autoesistente e incondizionato, un principio che viene chiamato appunto ''brahman''}}
 
Così il ''brahman'' da "enigma cosmico" della contesa sacrificale vedica, divenuto la "formula" del sacrificio e unità sottostante ai ''deva'' nei ''Brāhmaṇa'', acquisisce, con le ''Upaniṣad'', la nozione di fondamento e origine dell'intero reale.
 
Allo stesso modo la nozione di ''[[karman]]'' che se nei ''Veda'' è inteso come l'azione sacrificale e nei ''Brāhmaṇa'' diviene il risultato, soprattutto futuro, della corretta azione sacrificale<ref>{{q|Kauṣītakī affermava: limitati sono i risultati dei riti in cui vengono recitate un limitato numero di formule sacrificali- infiniti sono i frutti dei riti in cui vengono recitate un infinito numero di formule sacrificali - la mente è l'infinito - Prajāpati è la mente-[...] si ottiene un limitato attraverso il limitato, l'infinito attraverso l'infinito|''[[Kauṣitakī Brāhmaṇa]]'' XVI, 2,3|atha ha sma āha kauṣītakiḥ parimita phalāni vā etāni karmāṇi yeṣu parimito mantra gaṇaḥ prayujyate atha aparimita phalāni yeṣu aparimito mantra gaṇaḥ prayujyate mano vā etad yad aparimitam prajāpatir vai mano [...] mitam ha vai mitena jayaty amitam amitena|lingua=sa}}</ref>, nelle ''Upaniṣad'' diviene la legge di "causa-effetto" che condiziona ogni esistenza, essendo ogni esistenza di per sé un'azione sacrificale<ref>{{q| "Yājñavalkya" - allora gli disse - "quando un uomo, una volta morto, la parola è entrata nel fuoco, il respiro (''prāṇa'') nell'aria, l'occhio nel sole, la mente nella luna, l'orecchio nel cielo, il corpo nella terra, l' ''[[ātman]]'' nello spazio etereo, i peli nelle erbe, i capelli negli alberi, il sangue e lo sperma nelle acque, dove si trova quest'uomo?" "Prendimi la mano, amico Ārthabhāga, noi soli possiamo sapere queste cose, non dobbiamo parlarne pubblicamente". E lasciarono l'assemblea parlando tra loro. E parlavano del ''karman'', e mentre lodavano, il ''karman'' lodavano: si diventa buoni (si genera merito, ''puṇya'') con le azioni (''karman'') buone, si diventa cattivi (si genera il male, ''pāpa'') con le azioni cattive. Così il discendente di Jāratkāru, Ārthabhāga, si tacque.|''[[Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad]]'' III,2,13|yājñavalkyeti hovāca yatrāsya puruṣasya mṛtasyāgniṃ vāg apyeti vātaṃ prāṇaś cakṣur ādityaṃ manaś candraṃ diśaḥ śrotraṃ pṛthivīṃ śarīram ākāśam ātmauṣadhīr lomāni vanaspatīn keśā apsu lohitaṃ ca retaś ca nidhīyate kvāyaṃ tadā puruṣo bhavatīti āhara saumya hastam ārtabhāga āvām evaitasya vediṣyāvo na nāv etat sajana iti tau hotkramya mantrayāṃ cakrāte tau ha yad ūcatuḥ karma haiva tad ūcatuḥ atha ha yat praśaṃsatuḥ karma haiva tat praśaśaṃsatuḥ puṇyo vai puṇyena karmaṇā bhavati pāpaḥ pāpeneti tato ha jāratkārava ārtabhāga upararāma|lingua=sa}}</ref>. E le ''Upaniṣad'', come nota [[Alf Hiltebeitel]]<ref name=autogenerato5 />, vanno oltre in quanto il ''karman'' non ha più la funzione "positiva" di "costruire un sé permanente" attraverso una corretta esecuzione del rito ma è frutto del desiderio (''kāma'') che incatena al ''[[saṃsāra]]'' (ciclo delle rinascite) a prescindere se questo desiderio produca del "bene" o del "male". E se da una parte l'azione rituale non è nelle ''Upaniṣad'' rigettata essa non è più sufficiente, anzi è subordinata alla liberazione dal ''[[saṃsāra]]'' indicata con il termine ''[[mokṣa]]'' (o ''mukti'') ottenuta per mezzo della conoscenza (''vidyā'' o anche ''jñāna'') dell'unità sottostante al reale (''ātman-brahman'') grazie agli insegnamenti di un maestro spirituale (''[[guru]]'')<ref>{{q|Thus, though ritual action is not generally rejected and is often still encouraged in the Upaniṣads, it can only be subordinated to pursuit of the higher ''mokṡa'' ideal. Rather, the new emphasis is on knowledge (''vidyā'', ''jñāna'') and the overcoming of ignorance (''avidyā''). The knowledge sought, however, is not that of ritual technique or even of ritual-based homologies, but a graspable, revelatory, and experiential knowledge of the self as one with ultimate reality. In the early Upaniṣads this experience is formulated as the realization of the ultimate “connection,” the oneness of ''ātman-brahman'', a connection knowable only in the context of communication from guru to disciple.|[[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.''}}</ref>.
 
=== L'Induismo ===
Considerata l'opportuna avvertenza che il termine e la nozione di "Induismo" sono assolutamente recenti e per lo più inerenti alle classificazioni degli studiosi o degli hindu riformati, il termine "Induismo" indica di norma quel contesto religioso venuto ad essere dopo il [[Brāhmanesimo]]<ref>[[Mario Piantelli]]. ''Op. cit.'', pag. 6. Pur tuttavia il confine tra [[Brāhmanesimo]] e Induismo non è chiaramente delimitato, e altri autori, ad esempio [[Jan Gonda]], preferiscono considerare quello che alcuni denominano Brāhmanesimo nel contesto dell'Induismo "antico". Lo ''Knaurs Großer Religionsführer'' curato da [[Gerhard J. Bellinger]] e pubblicato dalla Droemer Knaur di Monaco nel 1986, edito in italiano dalla Garzanti nel 1989 come ''Enciclopedia delle religioni'', presenta [[Vedismo]], [[Brahmanesimo]] e Induismo in tre distinti lemmi: il primo procede dall'invasione degli indoari occorsa tra il 1800 e il 1600 a.C. fino all'800 a.C. dove sopraggiunge il secondo che dura fino al 400 a.C. inizio del vero e proprio Induismo.</ref>. Tenendo presente, come ci ricorda [[Charles Malamoud]], che di fatto la [[Religione vedica]] e il [[Brahmanesimo]] non sono del tutto tramontati in India:
{{q|Sarebbe sbagliato infatti credere che la religione vedica sia interamente cosa del passato. Molte cerimonie importanti del ciclo della vita, in particolare il matrimonio e i funerali, hanno nell'induismo la stessa struttura che nel Vedismo e richiedo la recitazione di testi vedici. Bisogna anche sottolineare che esistono famiglie di brahmani, per quanto sempre meno numerose, che hanno conservato senza interruzione fino ai nostri giorni lo studio del Veda; vi sono anche coloro che non hanno mai smesso di alimentare o ravvivare i loro fuochi sacrificali e che hanno continuato a celebrare, con discrezione altera, i sacrifici vedici.<ref>Nel prosieguo del testo [[Charles Malamoud]] tuttavia osserva che questi stessi brahmani possono praticare comunque anche le comuni attività devozionali induiste.</ref>|[[Charles Malamoud]]. ''La danza delle pietre''. Milano, Adelphi, 2005}}
 
==== Le tarde ''[[Upaniṣad]]'', la letteratura epica e la ''[[Bhagavadgītā]]'' ====
[[File:The Death of Bhishma.jpg|thumb|right|250px|[[Bhīṣma]] agonizzante sul letto di frecce (illustrazione dell'episodio finale del VI ''parvan'' del ''[[Mahābhārata]]''; XVIII secolo, conservato presso [[Smithsonian Institution|The Smithsonian Museum of Asian Art]] di [[Washington]]). [[Bhīṣma]], figlio del re Śāntanu e della dea Gaṅgā, il quale aveva rinunciato ai propri diritti regali facendo voto di castità e dedicandosi all'ascesi, viene ucciso in combattimento dalle frecce di Śikhaṇdin e di Arjuna. Tale è il numero di frecce che rendono agonizzante Bhīṣma che il suo letto di morte sarà costituito da esse. Durante l'agonia, che permarrà per cinquantotto giorni, Bhīṣma elargirà importanti dottrine inerenti al ''[[Dharma]]'' (dottrine che sono raccolte nei ''parvan'' XII e XIII del ''[[Mahābhārata]]''), venendo onorato da dèi e da eroi, anche nemici, tra cui lo stesso [[Arjuna]] che donerà all'asceta guerriero tre frecce dove posare il capo.]]
[[File:Krishna.jpg|thumb|right|250px|[[Kṛṣṇa]], ottavo ''avatāra'' di [[Viṣṇu]], è il personaggio centrale della ''[[Bhagavadgītā]]'' dove si presenta come la divinità suprema che impartisce insegnamenti religiosi. Qui è raffigurato come Kṛṣṇa Veṇugopāla, ovvero Kṛṣṇa suonatore di flauto (''veṇu'') e pastore delle mucche (''gopāla'').<ref>{{Cita|Eckard Schleberger|pp. 80-83|Eckard Schleberger, 1999}}</ref> Ha una corona regale (''kirīṭa mukuṭa'') con penne di pavone (''mayūrapattra'') che simboleggiano l'immortalità, richiamata anche dal pavone in basso a destra della figura. Il pavone simboleggia l'immortalità in quanto il suo progenitore nacque da una piuma di [[Garuda]]. La ghirlanda di Kṛṣṇa è una ghirlanda di fiori (''tulasī'') ed è composta da cinque filari di fiori che rappresentano i cinque sensi dell'uomo. La sua postura è la ''ardhasamasthānaka pādasvastika'', la postura a gambe incrociate con il piede destro che tocca con le punta delle dita il terreno mostrando leggerezza e calma e appoggiandosi alla mucca posta dietro di lui. Dietro Kṛṣṇa, l'immagine di una mucca, [[Surabhī]], che vive nel paradiso di Kṛṣṇa, [[Goloka]]. La mucca è dispensatrice di beni e per questo è sacra e non può essere uccisa. Sono le mucche che dopo la morte degli uomini consentono loro di attraversare un fiume sotterraneo (il Vaitaraṇī) pieno di coccodrilli per giungere all'altra riva dove disporranno di un nuovo corpo per la successiva reincarnazione. È vestito di giallo (''pitāṁbara'') colore della divinità solare che illumina il cosmo; la sua pelle è invece blu notte, o nera, sia per indicarne la pervasività nello spazio, sia per segnalarlo come manifestazione dell'Essere supremo nell'attuale era del ''kali'' (''[[kaliyuga]]''), essendo le altre tre precedenti ere contrassegnate da manifestazioni della divinità rispettivamente bianca, rossa e gialla (nell'insieme questi colori delle manifestazioni delle divinità delle differenti ere corrispondono ai quattro colori dei ''[[varṇa]]'').]]
[[File:Meister der Bhâgavata-Purâna-Handschrift 001.jpg|250px|thumb|Immagine tratta da un manoscritto del ''[[Bhāgavata Purāṇa]]'' risalente al XVI secolo e conservato presso la [[Madhuri D. Desai Gallery]] di [[Mumbai]]. L'immagine presenta [[Kṛṣṇa]] assistito dalle ''[[gopī]]'', le mandriane affascinate dal divino infante. Attribuito a [[Vopadeva]] (XIII secolo), ma forse antecedente di qualche secolo, il ''[[Bhāgavata Purāṇa]]'' è un ''Purāṇa'' ''[[vaiṣṇava]]'' composto in 12 ''skandha'' che narrano la vita del giovane [[Kṛṣṇa]] e i suoi amori con le ''[[gopī]]'', supremo ideale dell'amore umano-divino.{{q|Chi ha gustato il miele dei piedi di loto di [[Kṛṣṇa]] non prende di nuovo piacere in oggetti forieri di inganno, già ripudiati, costituiti dalle qualità dell'illusione cosmica|''[[Bhāgavatapurāṇa]]'' VI,3,33. Traduzione di [[Alberto Pelissero]], in ''Hinduismo antico'' (a cura di [[Francesco Sferra]]). Milano, Mondadori, 2010, pag. 1246}}]]
[[File:Raja Ravi Varma - Sankaracharya.jpg|250px|thumb|Dipinto raffigurante il famoso teologo e filosofo dell'[[Advaitavedānta]], [[Śaṅkara]] (788-820), opera di [[Raja Ravi Varma]] (1848–1906). A Śaṅkara la critica moderna attribuisce con certezza i commentari (''bhaṣya'') al ''[[Brahmasūtra]]'', alla ''[[Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad]]'' e alla ''[[Taittirīya Upaniṣad]]'' nonché gli ''[[Upadaśasāhasrī]]'' ("Mille insegnamenti"). Veementi saranno gli attacchi polemici portati da Śaṅkara alle scuole buddhiste in quanto negatrici dell'autorità religiosa del ''Veda''.]]
 
Alcune delle ultime '' Upaniṣad '' vediche (500-400 a.C.) si avviano a riportare le prime riflessioni ''[[yoga|yogiche]]''<ref>Cfr. ad esempio la ''[[Kaṭha Upaniṣad]]'' (collegata al ''Kṛṣṇa Yajurveda''):
{{q|Il saggio, grazie allo ''yoga'' individuale (''adhyātma yoga''), avendo contemplato la divinità difficile da percepire, penetrando nel mistero posto nell'intimo, nel primordiale, abbandona ogni piacere ed ogni dolore.|''[[Kaṭha Upaniṣad]]'' II, 12}}</ref>. In questo contesto la ''[[Śvetāśvatara Upaniṣad]]'' e la ''[[Kaṭha Upaniṣad]]'' si incentrano su due precise divinità: la prima su [[Rudra]]-[[Śiva]], la seconda su [[Viṣṇu]]. Come ha notato [[Madeleine Biardeau]]<ref>[[Madeleine Biardeau]]. ''L'Hindouisme. Anthropologie d'une civilisation''. Parigi, 1981, traduzione italiana: ''L'Induismo, antropologia di una civiltà''. Milano, Mondadori, 1981, pagg. 45 e segg.</ref> questa letteratura religiosa non si appella per indicare l'Assoluto allo ''ātman-brahman'' proprio delle ''Upaniṣad'' precedenti, ma riconsidera quel ''[[Puruṣa]]'' indicato nel ''[[Ṛgveda]]'' (X,90, vedi anche più avanti), il quale, come precisa l'inno vedico, si manifesta solo per un quarto per mezzo di "tutti gli esseri", consistendo, gli altri tre quarti, nell'"immortale nel cielo".
{{q|Tale è la sua grandezza, e più grande ancora è l'Uomo (''Puruṣa'') . Tutti gli esseri sono un quarto di lui. Gli altri tre quarti di lui sono ciò che nel cielo è immortale.|''[[Ṛgveda]]'' X,90,3. Traduzione di [[Philippe Swennen]]|etāvānasya mahimāto jyāyāṃśca pūruṣaḥ pādo.asyaviśvā bhūtāni tripādasyāmṛtaṃ divi|lingua=sa}}
 
[[Alf Hiltebeitel]]<ref>[[Alf Hiltebeitel]]. ''Op.cit.''.</ref> evidenzia come questo ''Puruṣa'' ''upaniṣadico'' non corrisponde alla sola "anima" come accade nel successivo ''[[Sāṃkhya]]'', quanto piuttosto indica sia tale "anima" sia la "divinità suprema". Se le precedenti ''Upaniṣad'' indicano la relazione tra individuo e assoluto nella coppia ''ātman-brahman'' queste ''Upaniṣad'' recenziori la mostrano attraverso la coppia ''puruṣa-Puruṣa''. Ed è proprio la ''[[Kaṭha Upaniṣad]]'' ad indicare un percorso ''yogico'' che consente al ''puruṣa'' individuale di raggiungere il ''Puruṣa'' supremo (inteso qui come divinità suprema)<ref>{{q|Superiore al grande [ātman] è [il primo] non-sviluppato, al [primo] non-sviluppato è superiore il ''Puruṣa'', nulla è superiore al ''Puruṣa'': lui è lo scopo, lui è l'ultimo rifugio. |''[[Kaṭha Upaniṣad]]'' I,3,11|mahataḥ param avyaktam avyaktāt puruṣaḥ paraḥ puruṣān na paraṃ kiñcit sā kāṣṭʰā sā parā gatiḥ |lingua=sa}}</ref>, condizione che si rifletterà nella successive pratiche devozionali della ''[[bhakti]]''.
 
Nello stesso periodo si avvia a prendere la sua forma definitiva il poema epico (''[[Itihāsa]]'', lett. "In verità accade ciò") conosciuto come il ''[[Mahābhārata]]'' (Grande [storia dei discendenti di] Bhārata) il quale, tuttavia, ha origini ben più antiche<ref>[[Georges Dumézil]] in ''Mythe et épopée'' riporta le conclusioni di [[Stig Wikander]] secondo il quale i padri dei cinque Pāṇḍava (relazionabili a Mitra-Varuṇa, Vayu-Indra e Aśvin) corrispondono alla serie trifunzionale degli dèi del [[Vedismo]], ma questa serie non rispecchia quella del tempo vedico (con Soma e Agni) piuttosto ad un periodo ancora più antico.</ref> che risalgono al periodo comune con gli [[iranici]] essendo le loro epiche collegate<ref>Cfr. anche [[Mircea Eliade]]. ''La sintesi induista: il Mahābhārata e la Bhagavad Gītā'', in ''Storia delle credenze e delle idee religiose'', vol. 2. Milano, Rizzoli, 2006, pagg. 236-7.</ref>.
 
Negli sviluppi successivi, questa grande epopea, o più precisamente la ''[[Bhagavadgītā]]'' in esso contenuta, diffonde al livello popolare alcuni elementi teologici già presenti nelle tarde ''[[Upaniṣad]]'' ovvero la doppia funzione, complementare, di [[Viṣṇu]] e [[Śiva]] come creatore e distruttore dell'universo. [[Mircea Eliade]] ritiene fondante tutto questo per la nascita dell'Induismo:
{{q|Pur esaltando Vishnu come l'Essere supremo, il poema sottolinea la complementarietà di Shiva e di Vishnu, e da questo punto di vista il ''[[Mahābhārata]]'' può essere considerato la pietra angolare dell'induismo: infatti questi due dèi, con la grande Dea (Shakti, Kālī, Durgā) hanno dominato l'induismo, dai primi secoli d.C. fino ad oggi. |[[Mircea Eliade]]. ''La sintesi induista: il Mahābhārata e la Bhagavad Gītā'', in ''Storia delle credenze e delle idee religiose'', vol. 2. Milano, Rizzoli, 2006, pagg. 237-8}}
 
Se dunque nei ''Veda'' l'origine di Tutto è quel [[Puruṣa]] che viene sacrificato dai ''deva'', di cui è origine, per dare forma all'universo<ref>''[[Ṛgveda]]'' X,90,6-8</ref>, e se addirittura colui che ha prodotto la genesi del Tutto forse nemmeno è a conoscenza di dove il Tutto provenga<ref>''[[Ṛgveda]]'' X,127,7</ref> e che dietro ciò che trascende il mondo vi è comunque una unità di fondo<ref>''[[Ṛgveda]]'' I,164,46</ref>; nei ''[[Brāhmaṇa]]'' l'origine di Tutto è certamente [[Prajāpati]], il sacerdote cosmico; mentre nelle prime ''[[Upaniṣad]]'' tale principio unitario di fondo da cui tutto proviene e di cui tutto è espressione è ricondotto al ''[[Brahman]]''; nelle tarde ''[[Upaniṣad]]'' vediche si torna al [[Puruṣa]] originario che viene tuttavia personalizzato come divinità, di volta in volta indicata come [[Viṣṇu]] o [[Rudra]]-[[Śiva]]; infine, nella tarda formazione della letteratura epica e nei ''[[Purāṇa]]'', letteratura religiosa a cui potevano accedere tutte le caste (e non solo quelle ''ārya'', vedi dopo) ivi comprese le donne, tale divinità si manifesta con definite dottrine teologiche e cultuali dando forma all'Induismo per come lo conosciamo oggi.
 
[[Madeleine Biardeau]]<ref>[[Madeleine Biardeau]]. ''Études de mythologie hindoue''</ref> appella questo "Induismo", che abbraccia nei suoi insegnamenti, tutti gli hindu a prescindere dal loro genere e condizione sociale, come "Induismo ''smārta''" ovvero Induismo fondato sulla letteratura delle ''[[Smṛti]]'' e non quindi su quella ''[[Śruti]]''.
 
Il prosieguo di questo sviluppo teologico è rappresentato dalla ''[[Bhagavadgītā]]'' (Canto dell'Adorabile Signore), un testo profondamente religioso inserito nel VI ''parvan'' del ''[[Mahābhārata]]'', il ''Bhīṣmaparvan''<ref>E' il ''parvan'' in cui il grande eroe Bhīṣma, figlio del re Śāntanu e della dea Gaṅgā, il quale aveva rinunciato ai propri diritti regali facendo voto di castità e dedicandosi all'ascesi, viene ucciso in combattimento dalle frecce di Śikhaṇdin e di Arjuna. Tale è il numero di frecce che rendono agonizzante Bhīṣma che il suo letto di morte sarà costituito da esse. Durante l'agonia, che permarrà per cinquantotto giorni, Bhīṣma elargirà importanti dottrine inerenti al ''[[Dharma]]'' (dottrine che sono raccolte nei ''parvan'' XII e XIII), venendo onorato da dèi e da eroi, anche nemici, tra cui lo stesso Arjuna che donerà all'asceta guerriero tre frecce dove posare il capo.</ref>, probabilmente intorno al III secolo a.C. e divenendo un testo classico dell'insegnamento religioso e filosofico hindu a partire dall'VIII secolo d.C.<ref>Cfr. [[Eliot Deutsch]] e [[Lee Siegel]]. ''Encyclopedia of Religion'', NY, MacMillan, 2006, vol. 2, pagg. 852 e segg.</ref>. Dal punto di vista filologico sono state individuate tre stratificazioni temporali all'interno di questa opera: la prima, di contenuto "epico", è la più antica; la seconda che riporta insegnamenti propri delle dottrine del Sāṃkhya-Yoga (canti 2-5); la terza è la stratificazione "teista" legata al culto di [[Kṛṣṇa]] (canti 7-11), la quale trova, nel canto 12, un vero e proprio inno alla ''[[bhakti]]''<ref>Cfr. [[Antonio Rigopoulos]], in ''Hinduismo antico'' (a cura di [[Francesco Sferra]]), pag. CLXXV.</ref>.
 
Nella sua redazione finale<ref>Probabilmente intorno al I secolo d.C., cfr. [[Antonio Rigopoulos]] ''Op.cit.''.</ref>, secondo [[Mircea Eliade]], la ''[[Bhagavadgītā]]'' riassume quattro dottrine:
{{q|In sostanza, si può dire che il poema 1) insegna l'equivalenza del [[Vedānta]] (cioè la dottrina delle [[Upanishad]]) del [[Sāṃkhya]] e dello [[Yoga]]; 2) stabilisce la parità delle tre 'vie' (''marga''), rappresentate dall'attività rituale, dalla conoscenza metafisica e dalla pratica yoga; 3) s'insegna a giustificare un certo modo di esistere nel tempo, in altre parole assume e valorizza la storicità della condizione umana; 4) proclama la superiorità di una quarta 'via' [[soteriologia|soteriologica]]: la devozione per [[Vishnu]] (-[[Krishna]]).|[[Mircea Eliade]]. ''Op. cit.'', vol. II, pag. 239}}
 
===== La "rivelazione" di [[Kṛṣṇa]] nella ''[[Bhagavadgītā]]'' =====
Questa opera, fondamentale per l'Induismo, si svolge sul campo di [[Kurukṣetra]] quando, eserciti schierati pronti al combattimento, l'eroe dei [[Pāṇḍava]], [[Arjuna]], preso dallo sconforto di dover uccidere maestri, amici e i cugini schierati nel campo avversario, decide di abbandonare il combattimento. Allora il suo auriga e amico [[Kṛṣṇa]] gli impone di rispettare i suoi doveri di ''kṣatra'', quindi di combattere e uccidere, senza farsi coinvolgere da quelle stesse azioni (''karma''). Per convincere Arjuna della bontà dei propri suggerimenti [[Kṛṣṇa]] espone una vera e propria rivelazione religiosa finendo per manifestarsi come l'Essere supremo. Innanzitutto [[Kṛṣṇa]] precisa che la sua "teologia" e la sua "rivelazione" non sono affatto delle novità (IV,1 e 3) in quanto già da lui trasmesse a [[Visvavat]] e da questi a [[Manu]] in tempi immemorabili, ma che tale conoscenza venne poi a mancare e con essa il [[Dharma]] e, quando ciò accade e per proteggere gli esseri benevoli dalle distruzioni provocate da quelli malvagi, qui è lo stesso [[Kṛṣṇa]] a parlare, «io vengo all'esistenza» (IV,8; dottrina dell'<nowiki></nowiki>''[[avatāra]]'').
 
[[Kṛṣṇa]] si manifesta nel mondo affinché gli uomini, e in questo caso Arjuna, lo imitino (III, 23-4). Così [[Kṛṣṇa]], l'Essere supremo manifestatosi, spiega che ogni aspetto della Creazione proviene da lui (VII, 4-6, ed altri) per mezzo della sua ''[[prakṛti]]'', e che, nonostante questo, egli rimane solo uno spettatore di questa creazione:
{{q|Padroneggiando la mia natura cosmica, io emetto sempre di nuovo tutto questo insieme di esseri, loro malgrado e grazie al potere della mia natura. E gli atti non mi legano, Dhanaṃjaya<ref>"Conquistatore di ricchezze", "Vittorioso", è un epiteto di [[Arjuna]].</ref>; come qualcuno, seduto, si disinteressa di un affare, così io rimango senza attaccamento per i miei atti.| ''[[Bhagavadgītā]]'', IX 8-10. Traduzione di [[Anne-Marie Esnoul]]}}
 
L'uomo deve quindi imparare a fare lo stesso essendo legato alle proprie azioni, in quanto anche se si astiene dal compierle, come stava per fare Arjuna rifiutandosi di combattere, i ''[[guṇa]]'' agiranno lo stesso incatenandolo al proprio ''[[karman]]'' (III, 4-5), egli deve comunque compiere il proprio dovere (''svadharma'', vedi anche più avanti) persino in modo "mediocre" (III, 35).
 
Tutto è infatti condizionato dai tre ''[[guṇa]]''<ref>Vedi tra gli altri XVII 7 e segg.</ref> che procedono da [[Kṛṣṇa]] senza condizionarlo.
 
[[Mircea Eliade]] così riassume l'insegnamento principale di [[Kṛṣṇa]] ad Arjuna e a tutti gli uomini, imitarlo:
{{q|La lezione che se ne può trarre è la seguente: pur accettando la 'situazione storica' creata dai ''[[guṇa]]'' (e la si deve accettare perché i ''[[guṇa]]'' derivano da Krishna) e agendo secondo le necessità di questa 'condizione', l'uomo deve rifiutarsi di ''valorizzare'' i propri atti e, perciò, di accordare un ''valore assoluto'' alla propria condizione|[[Mircea Eliade]]. ''Op. cit.''. pag. 241}}
{{q|In questo senso si può affermare che la ''Bhagavad Gītā'' si sforza di 'salvare' tutti gli atti umani, di 'giustificare' ogni azione profana: infatti, per il fatto stesso di non godere più dei loro 'frutti', ''l'uomo trasforma i propri atti in sacrifici'', cioè dinamismi transpersonali che contribuiscono a mantenere l'ordine cosmico|[[Mircea Eliade]]. ''Op. cit.''. pag. 241}}
Quindi la 'novità' della 'rivelazione' della ''[[Bhagavadgītā]]'' consiste nel comunicare all'uomo che non solo il sacrificio vedico tiene unito il cosmo, ma anche qualsiasi suo atto purché questo sia privo di attaccamento o di desiderio verso il 'risultato', ovvero gli venga attribuito un significato che prescinda dall'interesse di chi lo agisce; e tale meta è raggiungibile solo con lo ''[[yoga]]''.
 
Ma se:
{{q|Lo yogin è superiore agli asceti<ref>Coloro che praticano l'ascesi (''tapas'').</ref>, lo yogin è superiore anche agli uomini di conoscenza<ref>Coloro che conseguono la conoscenza (''jñāna'').</ref>, lo yogin prevale sui sacrificanti<ref>Sugli uomini che celebrano i sacrifici, ovvero coloro che ottengono il frutto delle azioni (''karman'') sacrificali.</ref>. Per questo, o Arjuna, divieni uno yogin|''[[Bhagavadgītā]]'' VI,46.|tapasvibhyo 'dhiko yogī jñānibhyo 'pi mato 'dhikaḥ karmibhyaś cādhiko yogī tasmād yogī bhavārjuna|lingua=sa}}
 
Tale obiettivo diviene conseguito pienamente solo se lo ''yogin'' focalizza la sua attenzione, e quindi dedica i suoi atti, in Dio, in [[Kṛṣṇa]] (VI, 30-1). In questo modo la ''[[Bhagavadgītā]]'' proclama la superiorità della ''[[bhakti]]'' su ogni altra 'via' spirituale o mondana; la ''bhakti'' è la 'via' suprema<ref>Cfr. [[Mircea Eliade]]. ''Op. cit.''. pag. 243</ref>.
 
Da ciò ne consegue che se nel ''[[Veda]]'' è il ''[[brahmdoya]]'', la contesa sacrificale, il luogo per conquistare ruolo e beni terreni; nei ''[[Brāhmaṇa]]'' è lo ''[[yajña]]'', il rito sacrificale officiato da una casta sacerdotale che garantisce in una vita futura, anche successiva a questa, i benefici cercati<ref>{{q|Kauṣītakī affermava: limitati sono i risultati dei riti in cui vengono recitate un limitato numero di formule sacrificali- infiniti sono i frutti dei riti in cui vengono recitate un infinito numero di formule sacrificali- la mente è l'infinito- Prajāpati è la mente-[...] si ottiene un limitato attraverso il limitato, l'infinito attraverso l'infinito|''[[Kauṣitakī Brāhmaṇa]]'' XVI, 2,3|atha ha sma āha kauṣītakiḥ parimita phalāni vā etāni karmāṇi yeṣu parimito mantra gaṇaḥ prayujyate atha aparimita phalāni yeṣu aparimito mantra gaṇaḥ prayujyate mano vā etad yad aparimitam prajāpatir vai mano [...] mitam ha vai mitena jayaty amitam amitena|lingua=sa}}</ref>, e nelle ''[[Upaniṣad]]'' è il ''vimokṣa'', la liberazione dalla mondanità l'obiettivo ultimo<ref>{{q|La massima felicità per gli uomini è essere ricchi e agiati e di comandare sugli altri, con disponibilità dei godimenti umani; ma cento felicità degli uomini equivalgono a solo una felicità di colui che ha conquistato il mondo celeste dei Padri; a cento felicità di colui che ha conquistato il mondo celeste dei Padri equivale una sola felicità di colui che ha conquistato il mondo dei [[Gandharva]]; a cento felicità di colui che ha conquistato il mondo dei [[Gandharva]] corrisponde una felicità di colui che ha conquista la felicità dei [[Deva]], i quali [grazie ai meriti] hanno assunto tale condizione; a cento felicità dei [[Deva]] corrisponde una felicità dei Deva primordiali (''ājanadeva'', Intende i ''[[Deva]]'' che tali sono sempre stati fin dall'inizio e che non devono la loro condizione alla rinascita.) nonché di un [[brahmano]] libero dal peccato e dal desiderio; a cento felicità del mondo di [[Prajāpati]] corrisponde ad una sola del ''[[Brahman]]'' e del [[brahmano]] libero dal peccato e dal desiderio e questa è la felicità suprema, grande re, tale è il mondo del ''[[Brahman]]''. Così disse Yājñavalkya: "Io ti offro mille vacche, o venerabile; ma tu spiegami ancora cose più alte al fine della liberazione". A questo punto Yājñavalkya si impaurì e pensò: "il re è astuto egli mi ha fatto uscire dalle mie difese".|''[[Bṛhadāraṇyaka Upaniṣad]]'' IV,3,33|sa yo manūṣyāṇāṃ rāddhaḥ samṛddho bhavaty anyeṣām adhipatiḥ sarvair mānuṣyakair bhogaiḥ sampannatamaḥ sa manuṣyāṇāṃ parama ānandaḥ atha ye śataṃ manuṣyāṇām ānandāḥ sa ekaḥ pitṝṇāṃ jitalokānām ānandaḥ atha ye śataṃ pitṝṇāṃ jitalokānām ānandāḥ sa eko gandharvaloka ānandaḥ atha ye śataṃ gandharvaloka ānandāḥ sa ekaḥ karmadevānām ānando ye karmaṇā devatvam abhisampadyante atha ye śataṃ karmadevānām ānandāḥ sa eka ājānadevānām ānandaḥ yaś ca śrotriyo 'vṛjino 'kāmahataḥ atha ye śatam ājānadevānām ānandāḥ sa ekaḥ prajāpatiloka ānandaḥ yaś ca śrotriyo 'vṛjino 'kāmahataḥ atha ye śataṃ prajāpatiloka ānandāḥ sa eko brahmaloka ānandaḥ yaś ca śrotriyo 'vṛjino 'kāmahataḥ athaiṣa eva parama ānandaḥ eṣa brahmalokaḥ samrāṭ iti hovāca yājñavalkyaḥ so 'haṃ bhagavate sahasraṃ dadāmi ata ūrdhvaṃ vimokṣāyaiva brūhīti atra ha yājñavalkyo bibhayāṃ cakāra -- medhāvī rājā sarvebhyo māntebhya udarautsīd iti|lingua=sa}}</ref>, nella ''[[Bhagavadgītā]]'' l'intera vita ordinaria acquisisce il luogo ultimo di salvezza, se essa è ''[[bhakti]]'', devozione offerta per intero a Dio, [[Kṛṣṇa]].
{{q|Chi vede in me tutte le cose e tutte le cose in me, per costui io non sono perduto, per me egli non è perduto. Lo yogin che mi onora come presente in tutti gli esseri e si rifugia in questa unità, questi è sempre in me, in qualsiasi stato si trovi|''[[Bhagavadgītā]]'', VI, 30-1. Traduzione di [[Raniero Gnoli]], in ''Op. cit.'', pag. 806}}
 
==== I ''[[Purāṇa]]'', la canonizzazione della letteratura religiosa in ''[[Śruti]]'' e ''[[Smṛti]]'', e la formazione delle ''[[Darśana]]'' ====
A partire dai primi secoli della nostra Era si avviano a comparire i primi testi detti ''[[Purāṇa]]'' (racconto), anonimi e composti probabilmente da brahmani, che, unitamente alla letteratura epica, potevano essere ascoltati, letti e insegnati anche tra i componenti dell'ultima casta, gli ''[[śūdra]]'', e tra le donne. Questi testi posseggono dunque la peculiarità di diffondere il messaggio religioso hindu presso tutta la "società" hindu, conservando la caratteristica dell'utilizzo di un [[sanscrito]] semplice e di facile comprensione, raccogliendo anche delle espressioni dialettali e popolari. A differenza dei testi raccolti nella ''[[Śruti]]'', i ''[[Purāṇa]]'' verranno messi per iscritto relativamente presto, forse intorno al IV-V secolo d.C., in quanto la loro natura, considerata inferiore rispetto alle raccolte vediche, ne consentiva tale modalità di diffusione<ref name=autogenerato3>Cfr. [[Antonio Rigopoulos]]. ''Op. cit.''.</ref>. Anzi, la copiatura di questi scritti e la loro diffusione era occasione di merito spirituale<ref name=autogenerato3 />. Rispetto alla letteratura epica, tuttavia, i ''[[Purāṇa]]'' presentano spesso una minore universalità hindu conservando invece la marcata regionalizzazione delle dottrine e la decisa presentazione di una singola divinità, sia essa rappresenta da [[Śiva]], [[Viṣṇu]] o con i differenti nomi con cui viene appellata la Dea<ref name=autogenerato5 />.
 
Sempre a cavallo della nostra Era, certamente a partire dalla composizione del ''[[Manusmṛti]]'', ma forse anche prima<ref name=autogenerato4>Cfr. [[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.''.</ref> i testi che furono poi raccolti nella sezione detta ''[[Śruti]]'' (lett. "ascoltato") iniziarono ad essere considerati "eterni", ovvero non composti da uomo (''apauruṣeya'' lett. "non per mezzo di un '' puruṣa'') ma nemmeno da un essere divino (''deva'') o da un essere supremo<ref>Occorre infatti precisare che le ''[[Śruti]]'' sono tradizionalmente non composte nemmeno dai ''[[deva]]'' o da un essere supremo (''Puruṣa'') {{q|Further, it was argued that they are even beyond the authorship of a divine “person” (''Puruṣa''). Though myths of the period assert that the Vedas spring from Brahmā at the beginning of each creation (as the three Vedas spring from Puruṣa in the ''Puruṣasūkta''), the deity is not their author. Merely reborn with him, they are a selfrevelation of the impersonal ''brahman''.|[[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.'', pag. 3994}}</ref>: essi furono uditi all'alba dei tempi dai ''[[ṛṣi]]'' ("veggenti"), e fu rivelata (autorivelata) loro dal ''brahman'' impersonale. A differenza di questi, i testi ritenuti composti da singoli uomini (''pauruṣeya'') e frutto quindi della tradizione, vennero raccolti ed indicati come ''[[Smṛti]]'' (lett. "ricordo"). I testi della ''[[Smṛti]]'' riconoscono l'autorità "eterna" a quelli raccolti nella ''[[Śruti]]'' e ciò occorre a distinguere l'Induismo dalle "eterodossie" [[Buddhismo|buddhista]] e [[Giainismo|jainista]] che non ne riconoscono invece tale l'autorità.
 
La funzione di questa classificazione, a parere di [[Alf Hiltebeitel]]<ref>[[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.'', pag. 3995</ref>, corrisponde sia alla necessità di rendere inferiori le letterature religiose "eterodosse", che così risulterebbero tutte delle ''[[Smṛti]]'' e quindi di valore comunque inferiore rispetto alla ''[[Śruti]]'' hindu, sia per relativizzare il Dio "personale" dei ''[[bhakti]]'' e, in ogni caso, per consentire una libertà interpretativa agli autori della ''[[Smṛti]]'' i quali dovevano solo limitarsi a non contraddire o mettere in discussione la ''[[Śruti]]''.
 
===== La reazione alla diffusione delle 'eterodossie' [[buddhismo|buddhista]], [[Giainismo|jainista]] e [[ājīvka]]: lo sviluppo delle ''[[darśana]]'' =====
Nel contempo, la necessità di compendiare quei cammini di liberazione auspicati dalla letteratura ''upaniṣadica'' e la rivalità e la competizione con le correnti religiose, come il [[Buddhismo]], il [[Giainismo|Jainismo]], e gli [[ājīvka]], considerate [[eterodossia|eterodosse]] dai [[brahmano|brahmani]], porta alla nascita e allo sviluppo delle ''[[darśana]]'' (lett. "punto di vista" da ''dṛś'' "vedere", anche "opinione", "dottrina"). Così [[Gianluca Magi]]:
{{q|Questa minaccia delle scuole eterodosse rende impellente per la filosofia brāhmaṇica l'adozione di un metodo logico-critico in grado di fondare concezioni teoretiche tali da resistere alle critiche delle varie scuole, e per contrattaccare a propria volta. In tal modo viene organizzata ogni forma di pensiero; ogni materia passa attraverso il filtro di questi sei metodi, le conclusioni, spesso contraddittorie, consentono di esaminare le problematiche filosofiche in modo equilibrato. Questi sei metodi, chiamati appunto "punti di vista" (''darśana''), considerati sei aspetti di una singola tradizione ortodossa sono ...|[[Gianluca Magi]]. ''Darśana'', in "Enciclopedia filosofica", vol. 3. Milano, Bompiani, 2006, pag. 2534 e segg.}}
 
Sei sono le ''darśana'' considerate ortodosse dal punto di vista dell'Induismo: [[Mīmaṃsā]], [[Vedānta]], [[Nyāya]], [[Vaiśeṣika]], [[Yoga]] e [[Sāṃkhya]].
 
Di queste le [[Mīmaṃsā]] e [[Vedānta]] sono considerate particolarmente legate ai ''[[Veda]]'' e quindi indicate come ''smārta'' (ovvero come le ''[[Smṛti]]'' legate direttamente alle ''[[Śruti]]'').
 
Le restanti quattro, [[Nyāya]], [[Vaiśeṣika]], [[Yoga]] e [[Sāṃkhya]], pur inserendosi nella tradizione vedica affrontano tali testi secondo una spiegazione logica o razionale e per questo vengono indicate come ''haituka'' (causate, ragionate) e sono alla base di elaborate 'mappe' del Cosmo e di "vie" di liberazione dalla schiavitù della mondanità, soprattutto in risposta a quelle presentate dalle "vie" eterodosse<ref>{{q|The haituka schools are notable for their development, for the first time within Hinduism, of what may be called maps and paths: that is, maps of the constituent features of the cosmos, and paths to deliverance from bondage. Emerging within Hindusim at this period, and articularly in the schools least affiliated with the Vedic tradition, such concerns no doubt represent an effort to counter the proliferation
of maps and paths set forth by the heterodoxies (not only Buddhism and Jainism, but the Ājīvka).|. Alf Hiltebeitel. ''Hinduism'' in ''Encyclopedia of Religion'' vol. 6. NY, Macmillan, 2005 (1987), pagg. 3997}}</ref>.
 
*[[Mīmaṃsā]]<ref>"Profondo esame", detta anche ''Pūrvamīmaṃsā'', "Primo esame approfondito".</ref> e [[Vedānta]]<ref>Detta anche ''Uttaramīmaṃsā'', "Ulteriore esame approfondito".</ref>: di queste due ''darśana'' ''smārta'', la prima è collegata al ''Veda'' e ai ''Brāhmaṇa'', mentre la seconda si focalizza sulle '' Upaniṣad'' (da qui il nome ''Vedānta'' fine del ''Veda'' proprio anche delle ''Upaniṣad''). Ambedue queste scuole non valorizzano la ''bhakti'': la [[Mīmaṃsā]] lo rigetta mentre il [[Vedānta]] lo subordina ai propri insegnamenti. La [[Mīmaṃsā]] si fonda, tra gli altri, sul ''[[Mīmaṃsāsūtra]]''<ref>Composto di 2621 aforismi che affrontano 890 argomenti inerenti al ''Veda'', ai suoi rituali e ai comportamenti consoni.</ref> di [[Jaimini]] (IV-II secolo a.C.) e consiste in una esegesi del rituale vedico e brahmanico il solo che consenta il raggiungimento dei Cieli divini (''Svarga''). La Mīmaṃsā non contempla infatti la ''[[mukti]]'' (la liberazione) e, pur considerando i ''deva'' realmente esistenti, ritiene che la ''bhakti'' (devozione) nei loro confronti non sia per niente necessaria per conseguire i Cieli divini. Il [[Vedānta]] si fonda invece sul ''[[Vedāntasūtra]]'' (anche ''Brahmasutra'') opera di [[Bādarāyaņa]] (IV-III secolo a.C.), un testo in stile aforistico che approfondisce e commenta l'opera delle '' Upaniṣad''. Da quest'ultima ''darśana'' emergerà l'[[Advaitavedānta]], il diffuso e importante sistema teologico codificato nell'VIII secolo da [[Śaṅkara]].
*[[Nyāya]] e [[Vaiśeṣika]]: questi due sistemi, nati rispettivamente dal ''[[Nyāyasūtra]]'' di [[Gautama]] (III sec. a.C.-II sec. d.C.) e dal ''[[Vaiśeṣikasūtra]]'' di [[Kaṇāda]](III sec. a.C.-II sec. d.C.), furono presto correlati tra loro e, nel V secolo d.C., furono unificati. [[Nyāya]] (logica) metteva in risalto l'utilizzo della [[logica]] come strumento di emancipazione spirituale, mentre il [[Vaiśeṣika]] (caratteristiche differenti) postulava una realtà fatta di [[atomo|atomi]] e la distinzione tra "spirito" e "materia". Questi due indirizzi furono utilizzati filosoficamente per dimostrare l'esistenza di un Essere supremo alla base sia della manifestazione e della distruzione dell'Universo, sia delle attività di liberazione dell'anima dell'uomo.
*[[Yoga]] e [[Sāṃkhya]]: queste due ''[[darśana]]'' sono probabilmente più recenti delle altre e sono basate la prima sullo ''[[Yogasūtra]]'' di [[Patañjali (filosofo)|Patañjali]] (tra il III sec. a.C. e il IV-VI secolo d.C.<ref>L'oscillazione dipende se lo si voglia o meno identificare con l'antico grammatico, cfr. [[Alf Hiltebeitel]]. ''Op. cit.''.</ref>) mentre la seconda sullo ''[[Sāṃkhyakārikā]]'' di [[Īśvarakṛṣṇa]] (IV secolo d.C.). Anche se il [[Sāṃkhya]] con il suo "ateismo" e la sua dottrina dell'isolamento (''kaivalya'') dello spirito (''puruṣa'', inteso come Sé o "coscienza pura", privo però di un Puruṣa supremo, divino o trascendente) dalla materia<ref>Da tener vivamente presente che la nozione di "materia" è ben più ampia di quella così considerata nella cultura occidentale includendo qui anche, e ad esempio, la "mente".</ref>(''prakṛti'', di natura impersonale) che lo tiene "prigioniero", sembra connesso con il [[Giainismo|Jainismo]], le sue dottrine e la sua terminologia hanno largamente influenzato l'intero Induismo<ref name=autogenerato4 />. Tra queste, particolare riguardo ha la dottrina dei tre ''[[guṇa]]''<ref>Qui intesi come costituenti dell'<nowiki></nowiki>''[[ahaṃkara]]'', l'ego empirico, piuttosto che "qualità" opposto a "sostanza" come riportato nei testi ''[[Nyāya]]''.</ref>. I ''[[guṇa]]'' costituiscono l'ego empirico che, trascinato da essi, trasmigra da corpo in corpo (mentre il ''puruṣa'' non è per niente coinvolto in questo processo anche se vi appare vincolato). I tre ''[[guṇa]]'' corrispondo al ''sattva'' (luce, lucidità, il più ricco della luce del ''puruṣa''<ref>Lett. è l'astrazione di ''sat'', l'essere, quindi la nozione di "essere".</ref>); al ''rajas'' (è l'elemento attivo, dominante nella condizione umana, la passione, l'energia,<ref>Lett. significa "polvere" intesa come che offusca la luce del ''sattva''.</ref>); e al ''tamas'' (tenebre, l'oscurità, l'ignoranza). Lo ''[[Yoga]]'' erediterà pressoché ''in toto'' le dottrine ''[[Sāṃkhya]]'', seppur con notevoli varianti, offrendo la "via" della liberazione del ''puruṣa'' dalla ''prakṛti'' attraverso un percorso indicato come ''Aṣṭānga'' ("otto membra" il cui nome potrebbe essere una risposta all'[[Ottuplice sentiero]] [[buddhismo|buddhista]]<ref name=autogenerato4 />). Il ''[[Rāja Yoga]]'' di [[Patañjali (filosofo)|Patañjali]], si differenzia tuttavia dal ''[[Sāṃkhya]]'' in quanto diversamente da quest'ultimo riconosce l'esistenza di Dio, l'"Essere supremo", indicato con il termine di [[Īśvara]] il quale però, se conserva il ruolo di centro della meditazione ''yogica'', non risulta un essere attivo nel percorso di liberazione del praticante.
 
==== Induismo devozionale e Induismo tantrico ====
A partire dalla seconda metà del primo millennio a.C. l'alveo religioso indiano promosse dei culti devozionali nei confronti di un Dio personale ed assoluto indicato anche con il termine generico di ''[[Bhagavān]]'', tale tendenza è testimoniata dalla tradizione scritturale dei poemi epici (''Itihāsa'') e dei ''[[Purāṇa]]''. Subito adottata, e quindi promossa, dai circoli brahmanici, queste tradizioni teistiche si concentrarono soprattutto su due ''[[deva]]'': [[Viṣṇu]] e [[Śiva]], che furono assurti a divinità assolute dalle rispettive tradizioni. Con il VI secolo d.C., in particolar modo nell'area oggi corrispondente al [[Nepal]] e al [[Kashmir]], emerse una nuova letteratura religiosa, presto fondamento di nuove liturgie e pratiche spirituali, i [[Tantra (testi induisti)|Tantra]]. Tale nuova dimensione influenzerà, a partire dall'XI secolo, l'intera religiosità hindu penetrando anche nelle dottrine dei suoi oppositori<ref>Cfr. [[Gavin Flood]]. ''Op.cit.'' pag.217</ref>. Accanto a queste tradizioni dominanti, l'Induismo si compone anche di un ulteriore ambito religioso che fa riferimento al culto delle [[Devi|Dee]], probabilmente preistorico e che eredita quello della Grande Dea ([[Mahā Devī]]), tradizione conosciuta anche come ''[[Shaktismo|śākta]]'' qualora si voglia fare riferimento a ''[[Shakti|Śaktī]]'', uno dei nomi della Grande Dea che indica il potere creativo che pervade l'intero universo.
{{vedi anche|Tantra}}
 
===== Le tradizioni ''viṣṇuite'' e ''kṛṣṇaite'' =====
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{{vedi anche|Vishnuismo}}
 
===== La tradizione ''śivaita'' =====
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{{vedi anche|Shivaismo}}
 
===== I culti ''[[śākta]]'' =====
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{{vedi anche|Shakti}}
 
==== La reazione dell'Induismo all'[[Islām]] e al [[Cristianesimo]]: il [[neo-Induismo]] ====
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